Toscana
Iraq, tornano gli ispettori ma resta lo spettro della guerra
Gli ispettori dell’Onu sono tornati in Iraq lunedì 18 novembre, dopo il via libera del governo iracheno alla ripresa delle ispezioni internazionali nel Paese. Il sì iracheno alla risoluzione delle Nazioni Unite – accolto con sollievo dalle nazioni arabe – ha però tutt’altro che fugato i timori di un nuovo conflitto in Iraq. La lettera, di nove pagine, è una vera condanna al governo Usa e ai suoi alleati, e in particolare a quello del premier britannico Tony Blair, che definisce un «lacchè».
L’amministrazione Bush si è detta scettica sulle reali volontà di Saddam dal momento che il sì iracheno alla ripresa delle ispezioni ai suoi armamenti è tutt’altro che incondizionato e che nella lettera non viene detto «accettiamo» ma «faremo fronte alla risoluzione 1441, nonostante il suo pessimo contenuto».
Da parte sua il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha gettato acqua sul fuoco, e dopo un incontro con il presidente Usa, George W. Bush, ha sottolineato che non è importante cosa dica la lettera ma cosa farà l’Iraq. «Il problema non è l’accettazione, ma il comportamento sul campo», ha detto Annan.
La risoluzione è frutto di un compromesso limato fino all’osso in cui ciascuno ha cercato di salvare il possibile delle proprie posizioni di partenza prima di cedere. Il ritorno della questione in sede di consiglio di sicurezza nel caso di fallimento delle ispezioni sembra soddisfare Francia e Russia che chiedevano una doppia risoluzione prima di prendere qualsiasi iniziativa militare. Ma dall’altra parte il fatto che il consiglio di sicurezza si dovrà riunire di nuovo solo per «esaminare» e non per decidere e l’avvertimento che già si preannunciano «gravi conseguenze» in caso di inadempienza da parte di Bagdad viene interpretato dalla Casa Bianca come un disco verde già concesso fin d’ora alla guerra non appena qualche rifiuto o qualche lamentela degli ispettori ne offra lo spunto o il pretesto.
Per uno di quei paradossi della diplomazia per cui le stesse parole rispondono alle più diverse intenzioni il testo è stato votato all’unanimità dai quattordici membri del consiglio di sicurezza comprese la Francia, la Russia, la Cina e perfino la Siria anche se le astensioni non avrebbero impedito l’approvazione della risoluzione. Alla fine tutti si sono voluti affollare nella stessa barca anche se con il proposito di remare in direzioni tutt’altro che coincidenti. Da parte di coloro che hanno cercato di evitare la guerra si è voluto un voto alla unanimità per aumentare la pressione su Saddam Hussein in modo che disarmi di sua iniziativa senza essere costretto da una azione militare. Tutti hanno votato la risoluzione anche per potere mantenere la mano sul timone delle possibili future manovre.
La mancanza di una risoluzione non avrebbe del resto impedito ad un Busch ringalluzzito dal fresco successo elettorale di marciare da solo con un’azione unilaterale. Riportando la questione dentro l’ambito dell’Onu si è voluta salvare la facciata di una certa legalità internazionale e dall’altra gettare in mano a Saddam Hussein la patata bollente di apparire come quello che decide, accettando o rifiutando l’ultimatum, la pace o la guerra. Se le ispezioni riusciranno a verificare le armi che Saddan possiede o non possiede e nel primo caso a disarmarlo, il rais, anche se indebolito, riuscirà probabilmente a sopravvivere e lo scontro sarà evitato.
Ma in ogni caso da qui a gennaio, quando giungerà il momento della verità che, guarda caso, coincide con l’undecennale della prima guerra irakena della dinastia Bush e con la stagione che i generali considerano più propizia per una nuova campagna in quella regione, basterà l’inciampo in un sasso di un ispettore per far scattare i nervi a fior di pelle di Washington. Nel frattempo chi ha votato la risoluzione con altre intenzioni dovrà faticare per dimostrare che si può disarmare senza usare le armi e che le guerre preventive volute semplicemente per abbattere un regime non fanno parte del diritto internazionale.