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Iraq sull’orlo di una guerra civile

DI ROMANELLO CANTINICompiere un attentato in una moschea o in un luogo di culto è il modo più straziante ed eloquente per dichiarare una guerra religiosa. Prima di tutto, perché si colpisce un edificio simbolico e sacro per molti e, in secondo luogo, perché al loro interno si selezionano sicuramente delle vittime secondo il loro credo. Sono almeno due anni che in Iraq i luoghi sacri degli sciiti sono oggetto di attentati.

Quando il fanatismo diventa incandescente, ci si accanisce non colo contro gli “infedeli”, ma anche contro gli “eretici”. Perfino, in Pakistan, la violenza fra sunniti e sciiti ha fatto centinaia di morti a conferma del fatto che il terrorismo non minaccia solo il suo “nemico”, ma anche il suo “prossimo”.

In Iraq, la violenza fra iracheni ha assunto, già poco dopo l’inizio della guerra, un volume di gran lunga superiore alla violenza portata contro le cosiddette truppe di occupazione. Un recente Rapporto dell’Organizzazione per i diritti umani “Human Right Watch” attribuisce, negli ultimi tre anni, alle organizzazioni terroristiche di Al Qaeda, di Ansar al-Sunna e dell’Armata islamica in Iraq, ben settantatre attacchi condotti esclusivamente contro la popolazione civile e, se i caduti delle truppe americane e inglesi sono ormai qualche migliaio, le vittime fra la popolazione irachena sono decine di migliaia.

Finora a subire il terrorismo, che mira a bersagli tipicamente religiosi, sono stati soprattutto gli sciiti. Secondo Abu Musab al-Zarqawi, il grande burattinaio che conduce la guerra contro “ebrei e crociati” in Iraq, gli sciiti sono colpevoli di aver partecipato massicciamente alle elezioni, quando la democrazia è “un’eresia”, e di aver approvato la nuova Costituzione, quando la sola Costituzione è il Corano.

A questa offensiva contro di loro, finora gli sciiti, in genere, avevano risposto senza reagire alle evidenti provocazioni, un po’ perché orientati dal carisma moderatore del grande ayatollah Ali al-Sistani, un po’ perché convinti che il tempo era dalla loro parte per consegnar loro tranquillamente, con le elezioni, quel potere fino a tre anni fa monopolizzato dai sunniti. Ma dopo l’ultimo attentato alla “Moschea d’oro” di Samarra (nella foto dopo l’attentato) anche l’ayatollah al-Sistani ha invitato i propri seguaci a scendere in piazza ottenendo un risultato che va certamente al di là delle sue intenzioni e che ha portato all’assalto di decine di moschee sunnite e a massacri che continuano in quasi tutto l’Iraq, nonostante l’imposizione del coprifuoco.

Al di là della strana dinamica dell’attentato alla moschea di Samarra, che è stato possibile organizzare con grande calma e con grande precisione, è tutto un fragile equilibrio basato sullo scenario di un mondo sciita paziente e vincente, che è cambiato negli ultimi mesi. Agli attentati clamorosi di marca sunnita hanno cominciato a corrispondere le esecuzioni mirate di marca sciita. Ora Abel Aziz al-Hakim, il capo del più importante partito sciita, ha a sua disposizione una propria milizia con le Brigate Badr, sorte come gruppo armato già sotto il regime di Saddam. A sua volta anche il leader estremista sciita Moqtada Sadr ha ai suoi ordini i cosiddetti guerriglieri del Mahdi. In concreto, accanto al predominio sciita conquistato con le elezioni, si sta profilando un pericoloso tentativo di creare un potere parallelo all’esercito e alla polizia regolari, con una tendenza tipicamente totalitaria, mentre nel frattempo l’irrigidimento del regime iraniano su Israele e sul nucleare fa riaffiorare alla mente la parentela religiosa fra Iran e Iraq, che può diventare anche parentela politica.

Anche la politica americana che, fino a poco tempo fa, puntava esclusivamente sugli sciiti e su una democrazia di maggioranza, ora cerca ad ogni costo di recuperare anche i sunniti per creare un governo di unità nazionale con sciiti, sunniti e curdi, nella stessa barca, come sostegni e contrappesi reciproci.

Mai come in questo periodo l’Iraq è sull’orlo di una guerra civile con un terrorismo sunnita che mira al caos contro ogni normalizzazione, con l’Iran che soffia sul fuoco della radicalizzazione degli sciiti e con i curdi che da sempre non pensano ad altro che alla loro indipendenza.

Dopo l’approvazione di una Costituzione e l’elezione di un Parlamento ora la tanto promessa democrazia irachena rischia di affondare a un miglio dalla costa. La grande incognita è ancora quella di puntare a una società democratica, senza sapere ancora se c’è una società che sia una. Come ci ricorda Ralph Darendorf per fare delle elezioni bastano sei mesi, per fare una Costituzione basta un anno, per costruire una società civile ci vogliono cento anni. Ed è soprattutto quest’ultima che in Iraq rischia drammaticamente di mancare.

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