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Iraq, la «pedagogia» della forca

di Romanello CantiniSe si crede, come si deve credere, che la vita umana è sacra, chi rende giustizia non può dare la morte nemmeno a chi ha ucciso se non vuole degradarsi a diventare un collega dell’assassino.

Per questo anche il peggiore dei carnefici va sottratto al carnefice. Questa idea, che ancora un secolo fa poteva sembrare un sogno delle anima belle, ha ormai il consenso della maggioranza degli uomini visto che la maggior parte degli stati del pianeta rifiuta oggi la morte. Per fortuna è la nostalgia del patibolo che sta diventando lentamente un’utopia.

Nemmeno il nuovo tribunale internazionale che si sta creando prevede la pena di morte. Nemmeno il tribunale che ad Arusha giudica i crimini del Ruanda ha potere sulla vita degli imputati anche se laggiù la vita è stata tolta a ottocentomila persone. E neppure il tribunale che a Phnom Penh si accinge a giudicare i capi dei Khmer Rossi può distribuire morte anche se in Cambogia la morte è stata distribuita a milioni di vittime.

Se in Iraq si vuole, come si dice, portare la democrazia, il processo a Saddam Hussein era una buona occasione per dimostrare che le democrazie quasi sempre non portano con sé la pena di morte. Se si voleva far uscire l’Iraq dal mondo dove si violano i diritti umani non ci si poteva non accorgere che, purtroppo, la pena di morte è una delle caratteristiche delle dittature del mondo arabo. Al contrario si è voluto usare il peggio del passato nella pretesa di costruire il futuro. Si è voluto usare la pedagogia della forca per dire anche agli analfabeti che il tiranno deposto era cattivo. Si è voluto usare il metodo dell’alternanza dei peggiori regimi del Terzo Mondo dove chi lascia il potere lo deve fare solo facendosi portare via da una bara.

Sappiamo che c’è una lunga tradizione americana per cui, non contenti di vincere, bisogna anche punire chi è sconfitto.

Si comincia con il presidente sudista Jefferson Davis messo in carcere dopo la resa nella guerra di secessione, si prosegue con la pretesa di processare il Kaiser Guglielmo II dopo la Grande Guerra per finire a Norimberga. Ma in Iraq è menzogna anche parlare di “giustizia dei vincitori”. Laggiù non si sa ancora chi vince e chi perde e nemmeno chi vincerà e perderà. L’esecuzione di Saddam è solo una goccia che si aggiunge ad un pozzo di sangue ancora caldo e non ancora nero. E’ una vendetta che si somma a un mare di vendette dell’ordine ormai di centinaia di migliaia di morti. E’ l’odio curato con l’odio, la violenza ammaestrata con la violenza, la rabbia dei sunniti esasperata dalla festa degli sciiti per cui, come diceva Gandhi, a forza di “occhio per occhio” alla fine saremo tutti ciechi.

E’ quasi incredibile che chi professa di voler dedicarsi a tempo pieno alla lotta contro il terrorismo non abbia posto attenzione alla spregiudicata amministrazione dell’immagine della morte che il terrorismo fa propria, al suo bisogno continuo di “martiri” per rendere sacra la causa e convincere alla imitazione sempre nuove reclute.

Per gran parte del mondo arabo la forca di Bagdad rifornisce il terrorismo di un “martire” illustre e lava perfino la sua immagine di tiranno dentro la candeggina del sacrificio. Ed è infine desolante che, proprio mentre tutti almeno a parole sembrano convinti che ormai il rischio dell’ Iraq è la guerra civile e che per cercare di scongiurarla bisogna in qualche modo convincere i sunniti a collaborare per uscire da una crisi terribile, si pensi di incoraggiare i sunniti alla solidarietà con il nuovo stato con l’impiccagione di colui che, a torto o a ragione, gran parte di essi hanno considerato il loro capo naturale per ventiquattro anni.

Saddam giustiziato all’alba