Opinioni & Commenti

Iraq, la guerra che distrugge e non ricostruisce

di Romanello CantiniLa cattura come ostaggi dei quattro italiani in Iraq di cui uno è già stato ucciso rappresenta un dramma nel dramma, il secondo episodio, dopo Nassirya, per cui un pezzo della guerra in Iraq ci giunge in casa.

Il rapimento è un gesto atroce che getta nell’incubo di una lotteria fra la vita e la morte il sequestrato ed i suoi familiari. Ma in questo caso è anche un pressante dilemma per il governo italiano che, al di là del dovere umanitario, è anche costretto a difendere una presenza in Iraq anche cercando di ridurre al minimo il prezzo di fronte ad un’opinione pubblica sempre più disorientata e preoccupata.

Nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore vedremo gli esiti di una trattativa che al momento di chiudere il giornale (mercoledì 21) è ancora in corso anche se tutti ci auguriamo porti alla liberazione dei nostri connazionali. Tuttavia va detto subito che da un lato sembra molto difficile mantenere il negoziato in corso sul piano umanitario o anche economico senza toccare gli impegni politici e dall’altro che, anche quando sia superato questo episodio, la situazione in Iraq è tale che la strategia del rapimento, fortemente ridotta in passato, offre oggi paurose possibilità ai terroristi con obiettivi facili e praticamente illimitati. La guerra ha cessato da tempo di funzionare con l’eroismo. Da almeno un secolo vince chi ha più proiettili, non chi ha più coraggio. E fra i combattenti le convenienze superano ormai quasi sempre le convinzioni.Negli eserciti moderni fatti di volontari professionisti conta molto il buon salario o, come accade negli Stati Uniti, un riscatto di un credito universitario non pagato o la riduzione degli anni per ottenere la cittadinanza nel caso, molto frequente, di immigrati che si arruolano.

Ma se la guerra diventa anche un affare pagato in proporzione all’addestramento che si ha e al rischio che si corre è inevitabile che nasca un mercato libero di «guardie» anche al di fuori degli eserciti ufficiali. Quel che ha sorpreso in Iraq, ma che era da tempo avvertibile anche in altre aree di crisi, è stata la presenza di «un esercito» di circa ventimila persone assunte privatamente e addette a più o meno vaghi compiti di sicurezza come protezione di impianti, di convogli, di oleodotti, di personale delle multinazionali, di personaggi delle istituzioni internazionali e forse dell’attività delle stesse organizzazioni non governative.

Si tratta di gente attirata sul posto da un frullato di motivazioni in cui è difficile dire se prevalga la simpatia per una causa, lo spirito di avventura o il guadagno svelto. Sono persone il cui mestiere non è poi più discutibile di molti altri, ma che possono guadagnare anche l’equivalente di un milione di vecchie lire al giorno. La presenza di un numero così grande di stranieri dispersi sul territorio, semiclandestini ed isolati, fornisce un materiale senza fine per una industria dei sequestri come quella che purtroppo si sta organizzando in Iraq. In secondo luogo ogni iniziativa di ricostruzione del paese, di ripresa dell’attività economica, di manutenzione delle infrastrutture, di assistenza umanitaria che provenga dall’esterno è minacciato dall’insicurezza.

Infine, anche qualora queste attività proseguano, sono frenate dall’enorme lievitazione dei costi che un sistema di sicurezza così salato nei prezzi comporta. Valga ad esempio il costo della riparazione della strada Kabul–Kandahar in Afganistan salito da 35 milioni a 300 milioni di dollari per i costi della protezione del personale. Così la guerra, finché rimane guerra, è non solo capace di distruggere, ma anche incapace di ricostruire nonostante tutte le promesse e i miraggi per il dopo guerra.

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