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Iraq, la democrazia non nasce dalle forche

di Romanello CantiniIn Iraq ormai un giorno non se ne va se prima non gli si danno almeno cento morti da portare con sé. Può contare molto dal punto di vista dei numeri se in uno di questi giorni ci sarà la giunta di un morto chiamato Saddam Hussein magari con alcuni suoi seguaci?

Forse qualcuno pensa che questa macabra ballata degli impiccati, messa come cappello su una guerra lunga ormai quanto una guerra mondiale, sia addirittura lo scopo di una carneficina che ormai dura da 43 mesi senza avere trovato una ragione a se stessa.

Forse ci si immagina che l’uccisione del tiranno deve costituire il rito propiziatorio della «nuova democrazia» in Iraq. E ci si dimentica che ormai quasi sempre le democrazie si distinguono per aver abolito la pena di morte. Forse si pensa che dopo un processo strano nella forma e nei contenuti solo una forca possa mettere la didascalia di colpevole sopra la testa del dittatore.

Ma Saddam era già condannato nella coscienza dei più prima del processo, prima della cattura, prima della guerra. Tutti sapevano delle esecuzioni, delle stragi, delle gasificazioni persino venti anni fa quando gli americani che allora se ne servivano facevano finta di non saperlo. La sua condanna morale è già scritta da tempo.

Chi è contro la pena di morte sa che anche il boia va strappato al boia. Con la pena capitale vittima e giustiziato diventano pari perché alla fine sono entrambi due poveri morti ammazzati. Con la clemenza dovuta alla dignità umana del colpevole la vittima diventa due volte più grande. Ha infatti acquistato due grandi crediti morali: quello di aver subìto e quello di aver rinunciato alla vendetta. Forse se qualcosa si voleva cercare di insegnare in tema di diritti umani ad un mondo islamico che ancora si distingue per l’adozione quasi generale della pena di morte bisognava cominciare da qui. E invece, da questo punto di vista, è come se avessimo fatto una guerra per andare ad insegnare agli arabi il cuscus.

Al contrario agli iracheni andava semmai raccontato che ormai due terzi dei paesi del mondo hanno abolito la pena di morte e che se ci fosse una democrazia mondiale la pena di morte sarebbe oggi cancellata dalla faccia della terra.Ma anche chi, come gli americani, ancora non trova obiezioni alla pena di morte dovrebbe almeno avvertire il tremendo errore politico di una esecuzione di Saddam oggi o domani. È stato detto che la condanna a morte di Saddam è «la giustizia dei vincitori». Niente è più fuori luogo. Semmai «è la giustizia degli sconfitti». In Iraq la violenza sta crescendo e non diminuendo. Negli ultimi due mesi ci sono stati seimila morti. Si tratta di vittime di attentati terroristici, di scontri di milizie private, di operazioni di delinquenza pura. Insomma, detto fuori dai denti, di una vera e propria guerra civile fra i sunniti che si sentono ora emarginati e gli sciiti che si sentono i vincitori. Per i primi Saddam è il simbolo, per i secondi il nemico. L’impiccagione di un uomo per cui mezzo paese piange e mezzo ride è una bomba in un arsenale. L’ex rais ha dimostrato durante il processo di sapere fare del tribunale una tribuna. Saprà fare anche di un eventuale patibolo un altare seppure indegno.

È incredibile che chi si presenta come specialista del cosiddetto fondamentalismo islamico non ponga poi attenzione all’istinto di sacrificio rituale che sottintende, al suo culto del martirio, al suo messaggio affidato a questa sapiente seppure terribile amministrazione della morte degli altri, ma anche di sé. Durante il suo processo negli Stati Uniti Zacarias Mussaui, l’organizzatore dell’11 settembre, ha fatto tutto il possibile per essere condannato a morte. La giuria gli ha fatto un dispetto condannandolo all’ergastolo. A Baghdad invece un tribunale ha creduto che era meglio fare di un prigioniero inoffensivo un martire in cielo per la guerriglia sunnita mentre il risparmio della sua vita poteva essere un primo strumento di riconciliazione.

Se questa dissennata sentenza dovesse essere eseguita nel clima terribile che si verrà a creare, dopo aver contato i morti che Saddam ha fatto da vivo prepariamoci a contare quelli che farà da morto. Come se ci fosse ancora bisogno di allargare i cimiteri quando già la guerra sembra che abbia fatto in meno di quattro anni forse seicentomila morti.

IRAQ, CONDANNA A MORTE PER L’EX PRESIDENTE SADDAM HUSSEIN