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Iraq, il nostro ritiro è sicuro, ma la guerra sembra senza fine

di Romanello CantiniE’ ancora viva l’ondata di emozione per la morte del capitano della Folgore Nicola Ciardelli e dei carabinieri Franco Lattanzio e Carlo De Trizio in una camionetta ridotta a un forno crematorio da una mina. L’omaggio ai caduti ha sommerso le polemiche. Nei politici più in vista e nelle cariche istituzionali ha prevalso almeno la pietà antica. Il Papa stesso ha detto che i nostri militari sono morti in una «missione di pace». Così pensavano anche i tre uomini che hanno lasciato in Iraq la loro vita e non è giusto negare la loro fiducia apertamente professata che sola può dare un senso al loro sacrificio e soprattutto portare conforto ai parenti e ai vicini che devono riempire un vuoto troppo grande con un perché altrettanto grande.

E tuttavia, pur se almeno l’ossequio è condiviso, non si riesce a trovare per questi nostri morti nemmeno la stessa lingua nel modo di chiamarli. Si va da «eroi» per scendere gradualmente ai «poveri ragazzi», alle «nuove vittime della guerra» fino all’oltraggio provocatorio di «occupanti». È inutile negare che lo scontro sulla guerra in Iraq sfiora alla fine se non il dolore per chi non c’è più almeno la sua memoria che pure è la sola cosa che resta dello scomparso.

Non si tratta più nemmeno di un riflesso della lunga, aspra contesa sul ritiro dei nostri soldati dall’Iraq. Dopo che il governo uscente ha deciso fin dal gennaio scorso il ritiro entro quet’anno e dopo che il governo Prodi ha messo nel suo programma un ritiro in tempi tecnici possibili e con la consultazione del governo iracheno, stiamo discutendo in sostanza di un mese in più o di un mese in meno con il rischio alla fine di litigare sull’orario degli aerei che riporteranno i nostri soldati a casa come succede a tutte le dispute che alla fine si riducono al bisogno di far trionfare il mozzicone di un principio.

In realtà il problema della nostra presenza in Iraq è quello di una presenza atipica anche rispetto alle altre numerose operazioni di pace a cui partecipiamo in altre parti del mondo e che rischiano di essere confuse e assimilate a torto con questa esperienza particolare. In Iraq siamo stati costretti ad entrare di fatto in una guerra anche se la nostra presenza inizia alla fine del maggio 2003 quando era in teoria finita solo la guerra «classica», mentre in altre situazioni siamo giunti ad operazioni militari già concluse o comunque con una neutralità fra le parti in causa. È vero anche che la nostra presenza è stata riconosciuta dalle deliberazioni dell’Onu e da un governo iracheno legittimato dalle elezioni anche se l’arrivo dei nostri soldati non ha atteso, ma ha preceduto queste legittimazioni. Infine, siamo arrivati in Iraq non con un obiettivo, ma addirittura con due: quello della «pace in Iraq» e quello della «guerra al terrorismo». Due scopi troppo stretti fra loro perché non stridano un po’ come un ossimoro.

Le nostre truppe a Nassiriya hanno consentito di ospedalizzare 400 iracheno e curarne circa 3 mila, ma al di là degli aspetti umanitari le incombenze principali dei nostri soldati alla fine sono risultate di carattere militare: quella di mantenere la sicurezza sul territorio e soprattutto quella ancora più insidiosa di addestrare la nuova polizia e il nuovo esercito iracheno. Se da un lato abbiamo incontrato il favore di una parte della popolazione per l’aiuto civile, dall’altro abbiamo trovato l’ostilità di quella parte che considera prioritario il ritiro delle truppe straniere dal paese.

È probabile che un nostro intervento puramente civile di cui si sta parlando in questi giorni abbia in Iraq una diversa accoglienza. Ma solo aggiungendo la postilla che nella situazione drammatica di insicurezza del Paese di oggi un corpo di operatori civili avrebbe bisogno di una protezione forse ancora più nutrita di quella di oggi. Il problema centrale è ancora, al di là del nostro ritiro di fatto ormai scontato, quella di cercare di trovare una via d’uscita ad una guerra che per ora non sembra finire se non in peggio. Sennò la guerra ci sarà anche se noi non ci saremo. E si può lasciare ad altri tutto il compito di fare la guerra, ma non tutto il compito di fare la pace.

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