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Iraq, il difficile ora è convincere

di Romanello CantiniNel suo libro «L’arroganza del potere» il senatore americano William Fulbright citava la storiella dei tre boy-scout che raccontano al caposquadra di aver compiuto la loro buona azione quotidiana aiutando la vecchietta ad attraversare la strada. «Bene, ma perché vi ci siete messi in tre?». «Beh, lei non voleva attraversare».

Gli americani nel loro idealismo interventista hanno spesso la pretesa di fare del bene anche a chi non ne vuole sapere. Ancora non sappiamo fino a che punto gli iracheni vogliono veramente la democrazia che gli angloamericani dicono di aver portato a bordo dei loro aerei e dei loro carri armati. Come minimo la democrazia in Iraq non sarà una scoperta, ma una invenzione. Convincere è l’impresa che viene ora dopo il vincere. In ogni caso chi presume di portare un regalo dovrebbe prima farsi perdonare per aver sfondato la porta per farsi ricevere. Già solo per questo motivo sarebbe bene che chi gestisce la pace non avesse lo stesso volto di chi ha fatto la guerra.

Ci vollero anni prima che gli americani fossero accettati e prima che un sistema democratico cominciasse a funzionare mezzo secolo fa nella Germania Occidentale, in Giappone, perfino nella Corea del Sud. Ora un lungo governo di un proconsole americano o inglese non è il modo migliore per dimostrare che gli iracheni sono finalmente padroni di se stessi. Bagdad per gli iracheni non è Sharm el Sheikh. È stata per secoli centro dell’impero e sede dei califfi. È un po’ come Roma, Parigi o Berlino per i cristiani. Una lunga presenza straniera non sarà mai una massiccia presenza turistica.

L’Iraq esce da trentacinque anni di dittatura, da tre guerre nel corso di sei lustri, da un embargo durato un decennio. La sua ricostruzione dovrebbe essere affidata prevalentemente alla comunità internazionale, all’Onu in primo luogo.

Chi vuole dimostrare la sua innocenza rispetto all’accusa di essere andato in Iraq per motivi economici (il petrolio soprattutto) dovrebbe avere tutto l’interesse a chiamare in un paese potenzialmente ricco ed ora desolato protagonisti concorrenziali nell’acquisto delle risorse, nella ricostruzione delle strutture, nella assegnazione degli appalti.

Nell’ultimo secolo, anche nell’epoca del tramonto dell’età coloniale, perfino quelle forme di protettorato temporaneo che erano i mandati sono stati affidati salvando almeno la forma della assegnazione da parte della comunità internazionale su decisione della Società delle Nazioni (Iraq, Palestina, Siria) o dell’Onu (Somalia). D’altra parte, senza un riconoscimento dell’Onu, il nuovo stato non avrebbe nemmeno la personalità giuridica per potere operare come soggetto autonomo nelle relazioni internazionali e nei rapporti economici.

Se, dopo aver setacciato tutto l’Iraq, non si trovano le famigerate armi di distruzione di massa l’unico pretesto di questa guerra rimane quello di portare un nuovo ordine nel Medio Oriente. Con due ipotesi emergenti da parte americana: che la lezione data all’Iraq serva come monito a tutti gli stati della regione ad essere più remissivi anche sulla questione palestinese, che l’Iraq sia solo il primo della serie a cui possono seguire, ad esempio, Iran e Siria. Poiché la posta è altissima soprattutto per quanto riguarda il conflitto arabo-israeliano, intendersi in molti al più presto anche sull’Iraq è indispensabile per non lasciare ancora gli Stati Uniti andare dritti e soli verso una deriva ancora più pericolosa della guerra in atto.

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