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Iraq, dove si muore senza un perché

di Romanello CantiniLa guerra in Iraq si incarognisce e diventa un quasi quotidiano museo degli orrori. La morte non è solo merce corrente, ma diventa spettacolo intimidatorio. Fra decapitazioni alla cinepresa ed esecuzioni offerte alla grande piazza mediatica si cancella ogni norma, seppur fragile, delle leggi della guerra, del rispetto dei prigionieri e delle regole di umanità che nelle esecuzioni delle pene il mondo si è dato da almeno due secoli.

Si è uccisi non solo perché si è soldati, ma perché si lavora ad un oleodotto o perché si scrive per un giornale. Non conta che si faccia la guerra o la si racconti. Si è uccisi non per un perché, ma per un dove: per provenire da un qualsiasi paese straniero che non sia l’Iraq, anche se non è in guerra, anche se non appartiene all’odiato Occidente. Ci sono gli spiccioli di una mentalità genocidaria in questo uccidere solo per il colore del passaporto.

Nessun stato può prendere una decisione sotto la minaccia di una estorsione o di un ricatto senza rinunciare ad essere se stesso e tuttavia a lungo andare il peso dei sentimenti metterà sempre più a dura prova la nostra coscienza e ci getterà in un angolo sempre più angoscioso fra la resa liberatoria e l’assuefazione cinica. In questo quadro sempre più buio conta semmai la crescente solidarietà verso le vittime anche da parte del mondo musulmano e il bisogno sempre più evidente di trovare un qualche sbocco al dramma iracheno.

Ora questa guerra, che tra poco non ci ricorderemo più nemmeno quando è cominciata, sappiamo sempre meno quando finirà. Al suo inizio sembrava un affare di poche settimane. Oggi i responsabili militari americani parlano di cinque, forse dieci anni. Lo stesso candidato democratico John Kerry non promette molto di più di un inizio del ritiro delle truppe americane prima della fine del suo eventuale mandato.

Quanto al presidente Bush ora parla addirittura di una guerra al terrorismo che non si può vincere definitivamente e che comunque si dovrà lasciare ad una generazione successiva. La guerra non fa molti progressi. L’esercito da solo non è stato in grado di liberare Najaf, né è in grado di controllare Falluja. Il sabotaggio continuo degli oleodotti impedisce di usare il petrolio per la ricostruzione del paese.

L’insicurezza tiene lontane le imprese straniere e le organizzazioni internazionali che volevano intervenire in Iraq. Perfino le riserve militari americane si stanno esaurendo. La leva volontaria non basta più a rifornire di uomini una guerra non prevista nella sua durata e Bush è costretto a ridurre i propri soldati in Europa e in Asia per alimentare l’Iraq. E invece bisogna assolutamente accelerare i tempi. È importante prevedere che, a partire dalle elezioni del prossimo gennaio, l’Iraq possa sempre più autogovernarsi e stabilizzarsi da solo e contare su quelle forze che, come il movimento sciita moderato, hanno dimostrato di saper rappresentare il paese meglio di tanti partitini improvvisati e coinvolgere chi, dall’Europa ai paesi islamici, può dare un contributo meno contestato alla normalizzazione.