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Iraq, dopo Sharm el Sheik ecco i rischi da evitare

DI ROMANELLO CANTINILa conferenza di Sharm el Sheik, che si tiene in questi giorni, non sembra che sia in grado di raggiungere risultati che vadano al di là di un’approvazione di principio delle elezioni in Iraq, previste per il prossimo 30 gennaio, e del processo per la creazione di un sistema democratico che dovrebbe svolgersi nel corso del 2005 con un’Assemblea costituente e, infine, con la creazione di un governo legittimato da libere elezioni.

E, tuttavia, questo progetto di pacificazione facile a descriversi sulla carta ha ancora di fronte a sé enormi ostacoli nella realtà e anche nel corso della conferenza, al di là degli assensi a parole e, più o meno, a denti stretti, è rimasto un sostanziale disimpegno nei fatti rispetto ad una situazione che vede sempre più soli sul campo americani e inglesi di fronte a una ribellione che sembra alimentarsi proprio da una sfida condotta contro un intervento che appare sempre più come una nuda operazione americana.

L’Europa ha offerto trenta milioni di euro per finanziare le elezioni e una disponibilità da parte della Germania e della Francia a cancellare i quattro quinti del debito irakeno.

Ma per quanto riguarda l’impegno militare non sono previsti nuovi arrivi, mentre sono già prenotate numerose partenze. Polonia, Ungheria, Olanda, Danimarca ritireranno i loro contingenti nel corso dei primi mesi dell’anno prossimo. Si dileguano anche le ipotesi di un possibile intervento dei Paesi islamici oscillanti fra l’opposizione alla presenza americana, la pressione della propria opinione pubblica, la paura di un caos a Baghdad peggiore di quello di oggi.

L’Iran chiede il ritiro degli occupanti. Siria e Giordania sono rifiutati dal governo irakeno perché Paesi confinanti. L’Egitto invoca la stabilizzazione, ma senza i propri soldati. Arabia Saudita e Pakistan potrebbero inviare proprie truppe, ma solo sotto il comando Onu. Questa eventualità è molto lontana, mentre Kofi Annan si rifiuta anche di inviare i propri rappresentanti in Iraq a organizzare le elezioni senza la protezione di qualche migliaio di soldati ancora da trovare.

Le truppe americane e inglesi, rimaste insieme ad altri contingenti sul posto, fra cui quello italiano, dovrebbero montare la guardia fino a quando il governo irakeno non sia in grado di difendersi da solo. Ma, finora il governo Allawi (nella foto il passaggio di consegne con Bremer) è lontano dall’aver reclutato i centomila uomini che si dicono necessari e, soprattutto, questo esercito domestico si è spesso squagliato al primo battesimo del fuoco.Paradossalmente aspettare che sia Allawi a licenziare americani e compagni significa far guidare la testa dalla coda e consegnare in mano a chi non l’ha combattuta la decisione della fine della guerra. È rischioso stabilire, come chiedevano i francesi, una scadenza precisa per il ritiro delle truppe. In questo caso, si verrebbe di fatto a ordinare alla rivolta una prova di resistenza fino al traguardo di quel fatidico giorno. Ma anche lasciare la decisione in mano al governo irakeno è assurdo, perché significa incoraggiare, con un’assicurazione militare senza fine, le sue deficienze e le sue incapacità politiche. Il rischio maggiore che ora si corre è di far perdere legittimità alle elezioni o per la mancanza di un minimo di sicurezza, soprattutto nel centro del Paese, o per il sabotaggio di massa da parte della componente sunnita. Questa eventualità diventa sempre più reale quanto più si insiste sull’attacco sanguinoso e impressionante a roccaforti sunnite come quello ancora caldo contro Falluja.Il dialogo con il terrorismo è impossibile, ma un dialogo anche con l’opposizione non violenta, come chiede la Conferenza islamica, è inevitabile se non si vuole inasprire e allargare la ribellione quanto più corre il sangue insieme ad ogni mese ed ogni anno dell’occupazione. Alla fine il premier Allawi ha dovuto promettere di aprire un dialogo anche con questa opposizione di cui fino ad ieri si negava perfino l’esistenza. È nello sviluppo di questo rapporto con una realtà del Paese più larga, più che su un’autosufficienza militare che ancora non si vede, che Allawi ha qualche possibilità di intravedere alla fine una qualche pacificazione del Paese.