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Iraq, dalle urne un no al terrorismo

di Romanello Cantini Ci vorranno ancora tre o quattro giorni per sapere con certezza se gli iracheni hanno approvato o no la nuova Costituzione nel referendum di sabato 15 ottobre. Per il momento solo il dato dell’affluenza può considerarsi parzialmente positivo. Una partecipazione al voto del 63% è un quoziente di civismo superiore a quello che mostrano i cittadini dei Paesi occidentali in molti loro referendum. E, tuttavia, anche questa consolazione è avvelenata dal fatto che la notevole affluenza è stata determinata dalla partecipazione della popolazione sunnita che, nelle precedenti elezioni di gennaio scorso, aveva disertato le urne e che ora è andata a votare, non per consacrare la nuova Costituzione, ma per affondarla.

Il meccanismo elettorale prevede che la Costituzione non sia considerata approvata se almeno tre province, sul totale delle diciotto province del Paese, esprimono un numero di no superiore ai due terzi. Nelle approssimazioni, sempre contestate, delle prime ore sembrerebbe che i sunniti siano riusciti a far prevalere i no solo nelle due province di Anbar e di Salaheddin. Insomma, anche stando alle prime indicazioni ufficiali, la Costituzione sarebbe stata approvata, ma per un soffio.

Già questo dato riduce di molto la differenza fra la possibile vittoria del sì o del no. Certo, se la Costituzione fosse bocciata, l’Iraq sarebbe risucchiato nel caos politico oltre che nel sangue quotidiano. Salterebbero le elezioni politiche previste per dicembre e tutto il calendario stabilito dall’Onu per cui il nuovo governo iracheno godrebbe dalla metà del gennaio prossimo della piena sovranità con il potere di chiedere il ritiro delle truppe straniere.

Ma anche una vittoria di stretta misura come quella che si profila rende indispensabile riaprire il dialogo con il mondo sunnita che, finché rimane ai margini del lavoro di costruzione del nuovo Iraq, impedisce ogni normalizzazione e pacificazione del Paese anche in un tempo lungo. Alla vigilia delle elezioni una parte del mondo sunnita, rappresentata dal Partito islamico, ha deciso di accettare la Costituzione sulla base di un accordo con i gruppi sciiti e curdi per cui la nuova Costituzione, anche dopo essere approvata, poteva essere emendata nei prossimi due mesi.Queste incrinature in un mondo sunnita, fino a ieri descritto come una setta ancora fanaticamente nostalgica di Saddam e alleata del terrorismo, sono significative e, nonostante tutto, promettenti. Andando a votare in massa a questo referendum, anche se per dire no, i sunniti hanno disobbedito platealmente all’ordine dato dai terroristi di Al Zarqawi che hanno condannato a morte chi si fosse avvicinato ai seggi e hanno considerato blasfema la consultazione perché “l’unica Costituzione è la Sharia”. Si è rotta così, seppure per un momento, una presunta identificazione fra il mondo sunnita e quel terrorismo che, negli ultimi diciotto mesi, ha assassinato oltre 12mila sciiti e che punta a una guerra civile sotto una bandiera religiosa.

È sempre più evidente che almeno una parte del mondo sunnita non punta più alla logica del “tanto peggio, tanto meglio”, ma a concessioni molto più concrete e precise come la distribuzione in tutte le parti del Paese di quella rendita petrolifera la cui produzione è concentrata nelle province sciite e curde.

L’amministrazione americana finora ha puntato soprattutto sulla maggioranza sciita e sull’alleanza con i curdi per guidare il Paese verso il dopo-Saddam. Ma, fidando su queste sole forze, da un lato, ha concesso loro forse troppo, inserendo nella Costituzione il riferimento al Corano come fonte della legislazione per conquistare gli sciiti e, dall’altro lato, per soddisfare i curdi, un sistema federale che non esiste in nessuno Stato arabo e che laddove esiste negli Stati islamici, come in Nigeria e Indonesia, ha provocato più conflitti che stabilità. È forse arrivata l’ora di guardare un po’ anche in altre direzioni.