Opinioni & Commenti

Iraq, cinque anni dopo. Il generale e il Papa

di Riccardo Moro

Anche quest’anno una Pasqua in cui si mescolano tragica sofferenza e tenace speranza. Non sono mancati i gesti di morte. Quelli più rumorosi in Iraq: 28 i morti ufficiali nella giornata di sabato scorso e una cinquantina le donne e gli uomini uccisi nella sola domenica di Pasqua. Quasi tutti civili. Alcuni sono vittime di missili lanciati nella zona verde, in teoria la più sicura di Baghdad, quella teoricamente inviolabile, in cui si trovano i palazzi delle nuove istituzioni nazionali e delle principali presenze straniere e internazionali. Altri sono vittime di attacchi suicidi, altri ancora del fuoco “amico” dei militari che hanno sventato e sventrato kamikaze in procinto di farsi esplodere.

Il numero delle vite falciate dalla guerra in Iraq è quasi incalcolabile. Tenta un aggiornamento continuo dei morti documentati “Iraq Body Count”, una iniziativa indipendente che nasce esplicitamente dall’affermazione di Tommy Franks, il generale statunitense che guidò l’invasione dell’Iraq nel 2003, il quale, alla domanda di un giornalista che gli chiedeva il numero dei morti a seguito di un attacco, rispose infastidito “We don’t do body counts”, non facciamo il conto dei morti. Mentre oggi il generale dalla pensione continua a sentire il bisogno di condividere le sue opinioni da un imbarazzante blog autoreferenziato, il sito di “Iraq Body Count” documenta la cifra di quasi 90mila morti. Ma le analisi che hanno provato a stimare il numero delle vittime della guerra irachena andando oltre quelle documentate sono arrivate alla incredibile cifra di circa 600mila morti nel solo periodo marzo 2003 – settembre 2004. Non si tratta di smargiassate. La ricerca che ha prodotto questi risultati, condotta dalle università Hopkins Bloomberg di Baltimora e Al Mustansiriya di Bagdad, è stata pubblicata nell’ottobre 2006 sulla notissima rivista scientifica “The Lancet”. Anche il prezzo pagato dai militari americani non è contenuto. Secondo i dati ufficiali del governo si sta raggiungendo il numero di 4mila morti. In questo quadro John McCain, candidato repubblicano alla presidenza Usa, ha dichiarato sabato a “Le Monde” e “El Pais” che è “sicuro che in Iraq stiamo vincendo”.

Di altro tenore il “forte e accorato grido” del Papa nella domenica delle Palme: “Basta con le stragi, basta con le violenze, basta con l’odio in Iraq! (…) Amato popolo iracheno, solleva la tua testa e sii tu stesso, in primo luogo, ricostruttore della tua vita nazionale!”(Il messaggio «Urbi et orbi»). Parole che hanno avuto un seguito nel messaggio urbi et orbi di Pasqua, estese alla sofferenza che stanno vivendo anche altre aree del pianeta distanti dalla pace. Citando il Darfur, la Somalia, il “martoriato Medio Oriente e specialmente la Terra Santa”, l’Iraq stesso, il Libano e il Tibet, Benedetto XVI ha pregato per il bene e la pace. E ha ribadito la speranza, ricordando la “solidarietà di quanti, sulle Sue orme e in Suo nome, pongono gesti d’amore, si impegnano fattivamente per la giustizia e spargono intorno a sé segni luminosi di speranza”.

Proprio pensando ad una prospettiva di speranza, i giorni di questa Pasqua offrono segni concreti. In Pakistan il presidente Musharraf ha dichiarato il suo appoggio a Youssaf Raza Villani, candidato premier del Ppp, il partito di Benazir Bhutto, che egli stesso aveva perseguitato e incarcerato fino al 2006. A Cipro si sono incontrati il leader della comunità turca Ali Talat e di quella greca Christofias per abbattere la barriera che divide il centro di Nicosia e avviare trattative per la riunificazione. È un gesto importante e inatteso che ridà speranza dopo i gravi fallimenti del passato. In Palestina i leader di Hamas e Al Fatah hanno sottoscritto un accordo, con l’accompagnamento del governo yemenita, per arrivare a nuove elezioni. Dal giugno 2007 i due partiti non si parlavano a causa della decisione di Hamas di prendere il potere nella striscia di Gaza, dove è maggioritario, e non riconoscere più il governo dell’Autorità palestinese. A Taiwan ha vinto le elezioni il partito disponibile ad un dialogo con la Cina, che vuole avviare colloqui per rasserenare la tensione che caratterizza le relazioni fra i due paesi. Chissà che una maggiore serenità con Taiwan non possa avere ricadute anche nel martoriato Tibet e nelle altre aree tormentate della Cina. Il Marocco ha ufficialmente chiesto all’Algeria di riaprire la frontiera tra i due Paesi, chiusa da 14 anni per le frequenti tensioni bilaterali legate alla stagione del fondamentalismo algerino e alla questione del Sahara Occidentale, la terra dei Saharawi oggi profughi in terra algerina, e il governo algerino ha risposto in maniera cauta ma non negativa.

Piccoli segni di timida speranza. È bello notarli la sera nei giorni di Pasqua, quando l’ombra lunga della croce diventa inaspettatamente luce che orienta il cammino.