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Iraq alla prova del voto tra attentati e defezioni

di Romanello Cantini Se la democrazia si giudicasse solo dal numero dei concorrenti che scendono in campo, forse, bisognerebbe dire che in Iraq ora addirittura si esagera. Per le tanto problematiche elezioni del prossimo 30 gennaio per eleggere un’Assemblea costituente di 275 membri sono state presentate ben 83 liste con un totale di oltre 7 mila candidati. Non è poco se si pensa che una candidatura comporta non solo il rischio ovvio di non essere eletti, ma anche quello di essere eliminati fisicamente prima delle elezioni da una strategia terroristica sempre più intimidatoria.

Gli sciiti che rappresentano la grande maggioranza della popolazione, si presentano alla consultazione con due grandi liste: quella del primo ministro Allawi con 183 candidati e soprattutto quella, che si presuppone fortissima, della Alleanza unificata irachena, patrocinata dall’autorità indiscussa del grande ayatollah Ali Al-Sistani e guidata da quel Abdelaziz Al-Hakim in cui molti vedono il futuro capo del governo.

Anche i curdi hanno compiuto un grande sforzo unitario riuscendo a far confluire in un’unica lista di 165 candidati i due partiti tradizionali di Massud Barzani e di Jalai talebani. Infine, i cristiani, che nel Paese rappresentano una minoranza di poco meno di 700.000 persone, hanno presentato ben tre liste.

Se la tendenza alla partecipazione sembra essere forte anche al vertice di queste confessioni religiose, ben diversa è la situazione in quel mondo sunnita che rappresenta solo il 20% degli abitanti, ma che da sempre ha costituito il vivaio della classe dirigente del Paese. L’autorevolissimo consiglio degli ulema sunniti ha invitato a boicottare le elezioni, anche se il Partito islamico di Iraq, principale formazione politica sunnita, guidata dal presidente provvisorio Ghazi Al-Yauar, ha deciso di partecipare con una propria lista.

A questo rischio di una defezione di gran parte degli elettori sunniti si deve aggiungere il problema ancora drammatico della sicurezza in città come Mossul, Falluja e Ramadi, dove più massiccia è la presenza di questa confessione religiosa e insieme sempre più invadente la minaccia quotidiana della violenza terroristica. Lo smacco che può concretizzarsi è insomma quello di un vizio di legittimità di una consultazione che potrebbe svolgersi con una regolarità relativa solo in parte del Paese e con la contestazione di una delle sue componenti storiche fondamentali.

Sullo sfondo si profila con quasi assoluta certezza il trionfo di quella componente sciita che rappresenta il 60% della popolazione irachena e che vede finalmente profilarsi la riscossa dopo secoli di emarginazione e decenni di persecuzione sotto il regime di Saddam Hussein. Di fronte a questa prospettiva che appare sempre più scontata non si allontana il timore per cui alla fine gli sciiti iracheni finiscano per copiare una sorta di regime teocratico analogo a quello di Teheran. Per la verità le liste degli sciiti sono piene di esponenti laici e di personalità indipendenti e gli sciiti iracheni rimangono sempre arabi rispetto agli sciiti persiani dell’Iran. Il grande ayatollah Al-Sistani continua a sostenere che il potere politico deve essere separato dal potere religioso e si è spinto fino a dichiarare che accetterebbe anche una donna o un cristiano come presidente dell’Iraq.

Tuttavia mentre l’Iran è diventato un grande sponsor di questa consultazione elettorale, solo l’evolversi della situazione e la prova dei fatti potranno tranquillizzare le altre minoranze a cominciare da quella cristiana che si sente oggetto di segni di ostilità crescenti ed è tentata perfino dalla fuga.