Opinioni & Commenti
Iran, una protesta senza leader
di Romanello Cantini
Dopo sei mesi dalle contrastate elezioni del 12 giugno scorso la contestazione contro il potere è ancora viva e forte in Iran. Anzi la protesta occasionale di allora è diventata ormai un’opposizione permanente. Ha alzato il tiro mirando dall’eletto e discusso Ahmadinejad alla guida suprema del Paese Ali Khamenei.
Ed ha allargato i suoi bersagli passando dalla protesta per i brogli elettorali alla denuncia della violazione dei diritti umani nel Paese. Negli ultimi sei mesi, nonostante i quattromila arresti, le decine di migliaia di morti nelle manifestazioni, i cinque condannati a morte, il regime non è riuscito ad arginare la protesta e gli almeno quindici morti nelle manifestazioni di domenica scorsa rappresentano il bilancio di sangue giornaliero più pesante degli ultimi mesi. Ormai il movimento di protesta è in grado di appropriarsi di fatto delle feste del regime scendendo in piazza, ad esempio, il 18 settembre scorso in occasione della giornata di solidarietà per la Palestina e il 4 novembre per l’anniversario dell’occupazione dell’ambasciata americana di trent’anni fa. Ed è capace di trasformare ogni funerale importante in una manifestazione contro il potere come si è visto in occasione delle esequie del grande ayatollah Montazeri.
L’opposizione è ormai una nebulosa che attraversa tutti i ceti e i protagonisti del Paese, dai politici sconfitti, ai dignitari religiosi caduti in disgrazia, ai tecnocrati, ai commercianti del bazar per finire con gli studenti che sono la punta di diamante del movimento e che significano molto in un Paese composto prevalentemente da giovani con una popolazione studentesca di tre milioni di ragazzi.
Di fronte a questo movimento capace di portare in piazza fino a cinquecentomila persone, il regime sembra ormai che stia esaurendo le sue armi di repressione. L’arresto degli oppositori sale dalla manovalanza generica e colpisce gli stessi collaboratori di Hossein Mousavi e di Mehdi Karrubi che, come grandi sconfitti delle elezioni, sono ancora i punti di riferimento anche se non sono più i capi di un movimento che di fatto li ha superati. Il divieto di ingresso ai giornalisti stranieri, la rigida censura sui giornali locali non possono impedire che l’informazione e la comunicazione passi attraverso quella rete di cellulari, di Internet, di Twitter che, nonostante tutti i tentativi di disturbo, rappresenta ormai la grande minaccia per tutti i regimi autoritari. La repressione si trova davanti sempre di più la via senza sbocchi di situazioni di questo genere. Non ci sono carceri sufficienti per eliminare una ribellione di massa e ogni allargamento della repressione rischia la guerra civile.
D’altra parte, un movimento di opposizione fatto senza capi ha punti di forza e punti di debolezza. La sua mancanza di leader gli permette di sottrarsi meglio alla repressione come un grande fenomeno di società civile invisibile. Ma questa struttura di massa senza volto rimane molto vaga negli obiettivi e nei programmi. Alla fine di novembre gli osservatori sono stati colpiti dal fatto che, mentre Ahmadinejad sembrava più malleabile sul problema scottante del nucleare, proprio i riformatori lo hanno accusato di cedimento. Siamo evidentemente in una fase di lotta interna così acuta che anche ogni drammatico problema internazionale viene strumentalizzato a questo fine.
Per il momento l’unico obiettivo unificante della protesta è la difesa dei diritti umani. Non è un fine da poco. Prima di tutto perché sinora è perseguito con la pratica della non violenza in un mondo islamico in cui spesso l’opposizione interna si fa sentire con il terrorismo. E soprattutto perché il tema dei diritti umani è rivendicato per la prima volta con questa forza e con questo seguito in quel mondo islamico che molti continuano a descrivere come costituzionalmente impermeabile alla democrazia. E forse a questa speranza dell’opposizione iraniana è oggi legata anche la speranza di tutti in un mondo più pacifico.