Mondo

«Io, prete cattolico iracheno vittima del conflitto»

La sua è la storia di tanti – migliaia, forse decine di migliaia – iracheni cattolici. Vivevano liberamente la loro fede come in nessun altro paese musulmano. Poi nel '91 arrivò la guerra – la prima del Golfo –, e con essa i tempi dell'emigrazione. Don Paolo Mingana è un giovane sacerdote, nato a Baghdad 34 anni fa. È prete da un anno e mezzo e da otto anni si trova a Roma, dove ha compiuti gli studi seminariali. «Sì, io sono una tipica vittima di guerra», racconta don Paolo. La sua vita infatti si intreccia con le vicende più recenti della storia dell'Iraq.DI GIANNI ROSSI

di Gianni RossiLa sua è la storia di tanti – migliaia, forse decine di migliaia – iracheni cattolici. Vivevano liberamente la loro fede come in nessun altro paese musulmano. Poi nel ’91 arrivò la guerra – la prima del Golfo –, e con essa i tempi dell’emigrazione. Don Paolo Mingana è un giovane sacerdote, nato a Baghdad 34 anni fa. È prete da un anno e mezzo e da otto anni si trova a Roma, dove ha compiuti gli studi seminariali.«Sì, io sono una tipica vittima di guerra», racconta don Paolo. La sua vita infatti si intreccia con le vicende più recenti della storia dell’Iraq.

Le immagini di questa guerra le ha viste in televisioni, ma lui – negli occhi – ha ancora quelle del 1991: «Sento ancora le sirene, i fragori dei bombardamenti. Allora ero appena entrato in Seminario, a Baghdad. Dopo due settimane tutti noi alunni fummo mandati a casa». Se la paura ha un volto, un suono, per don Paolo ha quello dei bombardamenti di quei giorni: «Pregavamo, incessantemente, era questo il nostro vero conforto».

Il racconto prosegue a margine dell’incontro organizzato a Prato, venerdì 11 aprile, dalla Provincia, dal Comune e dalla Diocesi in piazza del Comune. «Pace e solidarietà per l’Iraq» si intitolava la manifestazione: «Non abbiamo voluto la tragedia, vogliamo impegnarci per la ricostruzione», recitava il sottotitolo.

Don Paolo ha portato la sua testimonianza e un messaggio di monsignor Philip Najim, Procuratore del Patriarcato di Babilonia dei Caldei presso la Santa Sede. Ovvero della principale comunità della Chiesa cattolica in Iraq. Proprio monsignor Najim avrebbe dovuto partecipare all’iniziativa, ma l’improvvisa disponibilità di un passaporto diplomatico lo ha indotto ha partire nello stesso giorno per Bassora.Racconta don Mingana: «Scappammo al nord, ma presto arrivarono i curdi, che iniziarono a saccheggiare i villaggi e a minicciarci. Per due settimane abbiamo pernottato all’aria aperta, al freddo. Poi abbiamo passato il confine con la Turchia».

Migliaia di rifugiati furono assistiti dalle organizzazioni internazioni in tendopoli appositamente costruite. Dopo otto mesi, Paolo e la sua famiglia decisero di raccogliere l’invito di quelle organizzazioni ed emigrarono in Australia. Da allora, lui, la sua Baghdad non l’ha più rivista.

Ora, mentre alla televisione scorrono le immagini dei saccheggi, è ancora più convinto: «Questa guerra è sbagliata. Nessuna guerra ha mai risolto i problemi. Anzi, ne ha sempre creati di più gravi». E la libertà riacquistata dal suo popolo? «Libertà? Ma a quale prezzo? Al prezzo di decine di migliaia di morti, civili e militari».Don Paolo spera di poter rientrare presto a Bagdad, a servizio di quella Chiesa che affonda le sue origini nella predicazione dell’Apostolo Tommaso e che oggi, nonostante la massiccia emigrazione degli ultimi anni, conta ancora mezzo milione di fedeli. «Come vedo il futuro dei cristiani? Chissà. Fino ad oggi abbiamo goduto di una grande libertà, nonostante la dittatura».

Paradossalmente, agli occhi dei cristiani, Saddam col suo regime del terrore era ancora un male minore. Non si possono attendere nulla di buono né dall’ormai compiuto crollo dello Stato né da una rivoluzione islamica, sempre in agguato da quelle parti. «Sì, se il Patriarca mi chiama, rientro subito in Iraq».

Aiuti umanitari: come sostenere la Caritas