Cultura & Società
Intervista a Bisio: “Leggerezza per raccontare le atrocità”
Ospite della rassegna You Topic Fest a Rondine Cittadella della Pace (Arezzo), l'attore racconta l'emozione dell'esordio alla regia con "L'ultima volta che siamo stati bambini"
Claudio Bisio è, senza dubbio, un personaggio eclettico. Attore, presentatore, showman, cantate, doppiatore. Come dice lui, gli manca soltanto di dedicarsi alla scultura per completare il suo bagaglio di esperienze artistiche. Classe 1957, ormai da tanti anni all’apice del successo, ha compiuto da poco il salto dietro la macchina da presa, con il film «L’ultima volta che siamo stati bambini» che rievoca il rastrellamento che i nazisti effettuarono nel ghetto romano nell’ottobre del 1943. Proprio grazie alla realizzazione di quest’opera, Franco Vaccari, fondatore di Rondine Cittadella della Pace, l’ha voluto come ospite a YouTopic Fest, la kermesse dedicata alla gestione del conflitto, andata in scena per tre giorni (30, 31 maggio e 1° giugno) nel borgo in provincia di Arezzo.
Claudio, ma quanti ruoli hai interpretato nella tua carriera? Tantissima televisione, quasi cinquanta film da attore. Persino doppiatore nei cartoni animati…
«È vero. Tra i tanti personaggi che ho interpretato vado fiero di aver prestato la voce al bradipo Sid de “L’era glaciale” e a Dracula di “Hotel Transilvania”».
E ora, che non sei più un ragazzo, ecco arrivare un’opera prima da regista…
«Eh, sì. A 66 anni, ora 67, ho realizzato un’opera prima. Perché? Perché, quando ho letto la storia dell’omonimo libro di Fabio Bartolomei, da cui la pellicola è tratta, ne sono rimasto subito affascinato. E allora, nel mio ruolo di produttore, ho avanzato un’opzione sulla trasposizione cinematografica e subito mi sono messo alla ricerca di un regista che la potesse dirigere. E così, al terzo-quarto diniego da parte di autori che non erano disponibili, ho iniziato a perdere fiducia. Allo stesso tempo, ho iniziato ad accalorarmi e a ribadire ai miei collaboratori quale doveva essere l’identikit del mio regista ideale. È a quel punto che Giampaolo Letta della Medusa ha esclamato “ma quello che cerchi sei proprio tu” e tutti i miei collaboratori hanno convenuto che non mi rimaneva che mettermi in gioco”».
Ora ti attenderanno tutti al varco dell’opera seconda…
«Un po’ di voglia di girare un altro film mi è venuta ma proprio per quanto sono rimasto soddisfatto di questo non ho idea di cos’altro potrei fare. Chissà, questo film potrebbe rimanere anche un unicum nella mia carriera cinematografica. Quello che è certo, la molla a girare di nuovo potrà venirmi soltanto in presenza di un’altra storia appassionante come questa».
E quella narrata in «L’ultima volta che siamo stati bambini» è veramente una bella storia…
«Consiglio vivamente a tutti non soltanto di vedere il film ma anche di leggere il libro. Lo so che il film dovrebbe essere visto dopo aver conosciuto il testo originale ma, in questo caso, si può anche agire al contrario».
Come ci si sente a essere la figura più importante nella realizzazione di un film?
«In realtà, girare un film è un lavoro “corale”, un lavoro di squadra. Sono d’accordo nel pensare che il regista sia molto importante ma, durante le serate in cui ho incontrato il pubblico per presentare la pellicola, ho avuto a cuore che venissero ringraziate tutte le persone che hanno partecipato alla lavorazione. Proprio per questo, raccomando sempre che in sala vengano letti attentamente i titoli di coda dove sono menzionati».
Un film che racconta di ragazzi ed è destinato soprattutto ai ragazzi…
«Ed è proprio per questo motivo che è stato presentato in anteprima al festival Giffoni, davanti a una platea di soli ragazzi. È stato bellissimo anche perché, e in questo i ragazzi sono meravigliosi, alcuni di loro mi hanno criticato per il finale tragico. E li capisco, ma ho cercato di spiegare loro che ovviamente non potevamo cambiare il corso della storia. L’ultima volta che siamo stati bambini è una storia di fantasia ma è ispirata al vero rastrellamento del 1943. E sappiamo tutti come andarono a finire le cose».
Una storia, quella dei piccoli protagonisti, dove si diventa adulti troppo in fretta…
«Sì, una storia che parla della fine della pace, seppur l’amicizia e la fratellanza rimangano. Una storia che parla del momento del passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Tutti siamo stati bambini, qualcuno forse lo è ancora oggi che è adulto (e ride…). Tutti abbiamo avuto un momento, per fortuna spesso graduale, dove abbiamo lasciato i giochi dell’infanzia per prenderci le responsabilità che spettano ai grandi. I tre piccoli protagonisti del film, invece, passano bruscamente da un’età all’altra senza preavviso, senza le accortezze che si devono riservare ai più piccoli. Sarà l’attraversamento di un tunnel, il gesto che metaforicamente aprirà loro gli occhi sugli orrori della guerra e le atrocità degli adulti».
Ma con tutte le commedie che potevi girare, proprio con un film su un tema così difficile come la Shoah dovevi cimentarti?
«Ci ho pensato un po’ prima di mettermi in gioco ma poi, davanti a una storia così bella, non ho avuto dubbi. È chiaro che un tema di una tale drammaticità, trattato da un attore comico era un azzardo notevole. Ma poi ho pensato che il registro della leggerezza sarebbe stato il modo migliore per narrare quei fatti, visti con gli occhi innocenti dei bambini».
Un registro che, a quanto pare, è piaciuto tantissimo anche alla senatrice Liliana Segre…
«È vero. Liliana Segre ha pronunciato parole molto belle sul film. Quando per la prima volta ho letto le sue considerazioni in merito alla “leggerezza” della messa in scena non capivo se si trattasse di un complimento o meno. Poi ho capito e ho apprezzato le sue parole. La senatrice mi ha trasmesso il pensiero che ero riuscito a farmi capire sul messaggio che volevo lanciare allo spettatore. Perché volevo che, alla fine del film, rimanesse impressa negli occhi proprio la leggerezza dello sguardo che soltanto i bambini possiedono. Uno sguardo che ci parla del loro essere innocenti, ingenui, della meraviglia nel vedere la guerra e la morte per la prima volta».
Come hai scelto i tre bravissimi piccoli attori?
«Ci ho messo otto mesi per trovare gli attori giusti. Abbiamo fatto provini a centinaia di ragazze e ragazzi. All’inizio era sconfortante porre loro delle domande. Alla richiesta: “Cosa ne sai della Shoah?”, quasi tutti rispondevano: “Niente, ancora non ci siamo arrivati con il programma della scuola!” Poi, quando abbiamo iniziato le riprese con i tre prescelti, li ho trovati più maturi. Forse i genitori li avevano un po’ preparati all’argomento».
E da quest’esperienza di Rondine che cosa ti porterai a casa?
«Che questo film “c’azzecca” proprio con il tema del festival, il tema della pace e del conflitto. Credo che il mio film aiuti a comprendere che il conflitto e la diversità non saranno mai eliminate e, quindi, vadano affrontate con forza e con coraggio. Proprio nella prima scena, Italo, il figlio del gerarca fascista, sputa in faccia all’amico ebreo. Un gesto che rappresenta la contraddizione del genere umano che stringe relazioni di amicizia ma è destinato a vivere il conflitto che gli adulti hanno deciso di combattere. E allora ben vengano esperienze come Rondine che ci aiutano a capire e ad affrontare la nostra realtà».
Ci racconti un aneddoto legato alle riprese del film?
«Proprio Vincenzo Sebastiani, l’interprete di Italo, alla fine del film ha un bel monologo. Il ragazzo si stava preparando da tanto a recitarlo e il giorno che avevo schedulato le riprese è venuta sua madre a vederlo. Purtroppo, per una serie di ritardi, quel giorno non abbiamo potuto girare e, alla sera, ho visto il ragazzo in un angolo che piangeva a dirotto. Sua madre, infatti, il giorno dopo non sarebbe potuta ritornare sul set. Allora mi sono fatto dire dalla mamma quando sarebbe stata nuovamente libera e ho girato la scena in base ai suoi impegni».
Chiudiamo con quella che forse è l’unica frivolezza del film. Ci spieghi la tua battuta sul Milan? Non dirmi che nessuno te l’ha criticata…
«Assolutamente sì! Lo sceneggiatore avrebbe voluto toglierla perché, secondo lui, smorzava troppo la tensione della storia. Ci hanno anche provato provocandomi col chiedermi se all’epoca della Seconda guerra mondiale esisteva già il Milan. Certo che sì, è stato fondato nel 1899! E così ho imposto la mia volontà. Prima di tutto perché sono milanista (ride ancora…) ma, a parte gli scherzi, perché è l’unico momento in cui c’è uno sguardo bello tra i due fratelli. Sguardo di complicità, contro il grottesco padre tifoso. Un cenno di tenerezza che non c’è in altre parti del film».