Opinioni & Commenti
Insegnanti privati di rispetto e genitori complici dei figli
Il caso del vice preside della scuola media «Murialdo» di Foggia, preso a pugni sabato 10 febbraio dal padre di un alunno che il giorno prima aveva rimproverato, è solo l’ultimo, in ordine di tempo, di una storia di aggressioni perpetrate da genitori di studenti nei confronti degli insegnanti. Un mese prima, ad Avola, il padre e la madre di un ragazzino di 12 anni – che era stato redarguito dal professore di educazione fisica (per avergli lanciato contro un libro!) –, chiamati via cellulare dal figlio, si sono immediatamente precipitati a scuola e, davanti all’intera scolaresca, hanno preso a calci e a pugni il docente, rompendogli una costola.
Fra i due episodi, c’è quello di Santa Maria a Vico, nel Casertano, dove uno studente 17enne di un istituto tecnico, per una nota sul registro di classe, dopo il proprio rifiuto di farsi interrogare, ha tirato fuori dalla borsa il coltello e ha sfregiato la docente di italiano, provocandole una ferita alla guancia sinistra.
È comprensibile la frustrazione delle vittime di questi atti di violenza: «Sto pensando di mollare, noi professori non riusciamo più a controllare i ragazzi», ha detto in un’intervista al «Corriere della Sera» il docente di Avola. Ma è una demotivazione diffusa, oggi, nella maggior parte degli insegnanti, sempre più isolati in una società che non riconosce la loro funzione sul piano retributivo, né su quello del prestigio. Sessant’anni fa un professore guadagnava poco, ma era rispettato. Il film in cui Peppone, sindaco del paese, e i suoi compagni di partito vanno a trovare la vecchia maestra delle elementari col cappello in mano e ne vengono trattati, ancora dopo tanti anni, come degli asini discoli, ci parla di un mondo, ormai finito, in cui l’insegnante, pur essendo povero, aveva un’autorevolezza morale e culturale.
Oggi non è più così. Probabilmente è cambiata la percezione comune del rapporto tra denaro e valore sociale: in passato il primo non era la misura del secondo; nell’Italia contemporanea lo è diventato. Chi guadagna poco è un fallito e, se si permette di far valere la sua autorità, può essere contestato e umiliato senza conseguenze significative.
Ma gli episodi di violenza non ci parlano solo del declino della scuola: essi sono lo specchio allarmante del permissivismo che ormai regna in molte famiglie, dove dei genitori iperprotettivi, invece di esercitare la loro funzione educativa, sono talmente succubi dei capricci e delle trasgressioni dei loro figli da diventare i loro complici. È un indizio di questa degradazione del senso della paternità il fatto che oggi molti padri si vantino di essere per i propri figli degli «amici», senza rendersi conto che in questo modo li hanno resi orfani, perché di amici ne hanno tanti, ma di padre uno solo.
Alla radice c’è probabilmente la crescente insicurezza degli adulti, che li rende bisognosi di consenso e timorosi dei conflitti che un esercizio reale della loro autorità genitoriale potrebbe determinare. Da qui – osserva Massimo Recalcati – «l’occultamento delle differenze generazionali e delle responsabilità che queste differenze implicano». In realtà, egli constata, «non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli». E poiché «per risultare amabili è necessario dire sempre “Sì!”, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudodemocratico del dialogo», ecco che ci si mimetizza, camuffandosi da coetanei, irresponsabili di ciò che il figlio fa o non fa. Da qui «l’omogeneità della famiglia ipermoderna», che «ci introduce a una scena dominata dal simile (…) Bambini equivalenti ai genitori, madri alle figlie, padri ai figli».
In realtà, oggi più che mai, sottolinea Recalcati. «i figli hanno bisogno di genitori in grado di sopportare il conflitto e, dunque, in grado di rappresentare ancora la differenza generazionale». Degli adulti degni di questo nome non si troverebbero a spalleggiare i loro figli discoli e maleducati. Intanto perché avrebbero saputo formarli a uno stile diverso, ma, ove anche questa formazione avesse fallito, sarebbero alleati della scuola nel punire severamente le trasgressioni.
Un ultimo doloroso messaggio, che proviene dagli episodi sopra menzionati, riguarda la violenza dilagante nella nostra società a livello verbale e mediatico, di cui quella a livello fisico è una conseguenza inevitabile. L’imbarbarimento del linguaggio sulla scena politica è inversamente proporzionale al livello intellettuale dei programmi e dei personaggi che li rappresentano. Dalle rozze esternazioni di Bossi, ai vaffa’… di Grillo, al recente turpiloquio della Meloni in tv, assistiamo a una trionfante esibizione di volgarità. Non si tratta solo di episodi isolati. Basta scorrere i commenti sui social per rendersi conto quanto questo modo di aggredire la vittima di turno con parolacce (prima si chiamavano così) e insulti si sia diffuso, sostituendo alla logica del confronto, anche acceso, vigente nella Prima Repubblica, quella del linciaggio. Che poi ci si stupisca e ci si indigni per la decadenza della scuola – perché, coerentemente con questo stile, un genitore va a spaccare la faccia a un professore che ha rimproverato suo figlio – è solo il segno che questa società, oltre che violenta, è anche ipocrita.