Cultura & Società
Inquisizione, la volontà di fare chiarezza
Forse, sull’inquisizione, non si farà mai chiarezza. Non perché non si voglia o non si possa. I documenti ci sono e gli studiosi seri, corretti, onesti del fenomeno abbondano: e non sono affatto inclini all’indulgenza nei confronti di un’istituzione che da anni turba la Chiesa e la induce a far chiarezza nel quadro della «purificazione della memoria». Fu in tale ambito che, preparando il Giubileo del 2000, la Commissione Teologico-Storica vaticana indisse nel 1998 un grande Simposio di studi, al quale parteciparono i migliori specialisti della ricerca attorno all’Inquisizione, senza riserva né esclusione alcuna.
Il Pontefice, che già nella Dignitatis humanae e nel Tertio millennio adveniente aveva con forza sottolineato come i cristiani si fossero più volte nella storia allontanati dall’insegnamento del Cristo e come di ciò dovessero far ammenda e chieder perdono, ha salutato con gioia, nel giugno scorso, la pubblicazione degli Atti di quel Simposio: dal quale emerge una verità dura, spietata, ma anche una ricostruzione equa di quella tanto discussa istituzione ecclesiastica che aiuta a correttamente inserirla nel contesto del suo tempo.
Il punto è: riusciranno gli esiti severi e onesti di faticosi studi documentariamente fondati a scalfire la «leggenda nera» che ancora a livello massmediale incombe sulle istituzioni inquisitoriali e che le dipinge come esclusivamente repressive, fondate sull’arbitrio e sulla violenza?
La parola inquisitio significa, nel mondo latino, «ricerca», «indagine», «esame»; in senso più propriamente giuridico, «inchiesta giudiziaria». Con il termine si sono qualificate, nel corso della storia, differenti istituzioni a carattere giudiziario e repressivo. Quella che qui ci riguarda e che, per il grande pubblico, è «l’Inquisizione» per eccellenza è l’insieme delle differenti forme assunte dall’organizzazione giudiziaria ecclesiastica sorta nel corso del XII secolo per la difesa dell’ortodossia religiosa, la lotta contro l’eresia o per prevenirne il dilagare, e sviluppatasi poi in distinte fasi in rapporto al differenziarsi della società cristiana e all’affermarsi delle monarchie assolute e degli stati assoluti che ne condizionarono l’attività.
Preliminare alla comprensione di queste note è comunque un dato obiettivo: almeno fino al XVI secolo in tutta Europa, ma nei paesi restati cattolici anche dopo la Riforma fino al Settecento, è impossibile distinguere la Chiesa, intesa correttamente come comunità dei credenti, dalla società civile. Per quanto dunque i tribunali inquisitoriali dipendessero dal clero, essi ricevevano non solo conferma bensì anche appoggio dalle autorità laiche, le quali ponevano a loro disposizione le loro infrastrutture giudiziarie e contribuivano a tradurre in termini di condanna civile secondo le loro leggi, diverse di tempo in tempo e da luogo a luogo i verdetti inquisitoriali, che riguardavano sempre e comunque un problema teologico e spirituale, l’ortodossia degli accusati. Il punto è che, nell’Europa premoderna, il «peccato», o meglio la trasgressione disciplinare, detta «eresia», era trattato in un modo o nell’altro anche come reato dal punto di vista civile. Ciò non era imposto dalle autorità chiericali, bensì disposto da quelle laicali: in una società che non era affatto «dominata dai preti» bensì, istituzionalmente e nel senso proprio dell’espressione, una Cristianità: vale a dire una società civile fondata istituzionalmente su princìpi cristiani.
Fino dai primi anni del cristianesimo, differenti pareri si erano confrontati e scontrati a proposito d’una verità di fede che si andava definendo attraverso il commento alle Scritture e le discussioni teologiche derivatene. Attraverso varie riunioni («concili») dei capi («vescovi») delle Chiese locali, si erano definite a partire dal IV secolo le basi dell’ortodossia specie rispetto ai grandi problemi della Trinità e della persona del Cristo ch’era còmpito delle gerarchie ecclesiastiche tutelare.
Tuttavia, a partire dall’editto di Teodosio del 381, il cristianesimo era diventato religione di stato: e quindi anche la corretta osservanza delle verità di fede una questione pubblica, della quale l’imperatore era il massimo garante. Gli Augusti cristiani avevano pertanto fondato al riguardo una tradizione giuridica che sarebbe confluita nel Corpus Iuris Civilis di Giustiniano e per l’elaborazione della quale sarebbero state fondamentali anche le norme repressive formulate da alcuni loro predecessori pagani: ad esempio i divieti e le condanne di Giustiniano nei confronti dei manichei.
Nell’impero romano d’Oriente la legislazione imperiale e i tribunali di stato avrebbero continuato a occuparsi direttamente della repressione dell’eresia. Venute invece meno, nella pars Occidentis, autorità e istituzioni imperiali, le gerarchie sacerdotali della Chiesa (intesa nel suo valore proprio, di «comunità dei credenti nel Cristo» distinta in clero e laicato) si trovarono a dover tutelare direttamente e da sole l’ortodossia: allo stesso modo, del resto, esse dovettero sovente soprattutto fra V e VIII-IX secolo, ma anche più tardi assumersi uffici e funzioni di tipo civile, politico e addirittura militare. Naturalmente, in tale funzione come nelle altre, esse coinvolsero a loro volta a più livelli le istituzioni laicali che peraltro nella misura in cui qualunque forma di potere era considerata comunque d’origine divina non potevano disinteressarsi del problema delle eresie, l’affermarsi delle quali era considerato un pericolo anche per la stabilità delle istituzioni e per l’ordine costituito.
Una volta definita l’ortodossia, d’altronde, l’eterodossia ne diventava una costante e inevitabile compagna. Tra IV e XII secolo i concili individuarono nella Chiesa latina il continuo avvicendarsi di forme ereticali, in linea di massima costantemente individuate e giudicate in rapporto e in analogia con le precedenti. Andavano intanto affermandosi gradualmente, all’interno di essa, autorità e potere del vescovo di Roma (il «papa»). Il compito d’individuare i gruppi ereticali e d’indicarli ai poteri laici affinché essi fossero perseguiti, specifico dei vescovi, fu pertanto gradualmente accentrato nelle mani della Curia romana, che nei gestì modi e strumenti. Debbono essere distinti dunque, nella storia dell’inquisizione, differenti fasi e situazioni: l’inquisizione «vescovile»; quella «pontificia»; quella «spagnola», quella «romana». In forme diverse, nella Chiesa romana e nei paesi cattolici, le istituzioni inquisitoriali si sono evolute al contatto con il processo di laicizzazioni giungendo (attraverso tuttavia una progressiva perdita di potere immediatamente coercitivo) sino al XX secolo.
L’inquisizione pontificia si andò affermando a partire dalla fine del XII secolo sulla base dell’insorgere di una vera e propria «grande paura», quella che la società cristiana fosse letteralmente sconvolta da un «cristianesimo alternativo» che si presentava con i caratteri dell’evangelismo popolare ma era in realtà un vero e proprio anticristianesimo di tipo gnostico-manicheo: il catarismo, che propugnava la malvagità di tutta la materia e in ultima analisi della vita stessa.
I dati d’archivio, pur lacunosi, inducono a limitare le esecuzioni nell’ordine delle centinaia (cifre esse stesse raccapriccianti, beninteso: ma ben lontane da quelle abnormi della propaganda) e soprattutto a sottolineare come, rispetto ai molti processi, le condanne fossero abbastanza rare e molto poche tra esse le capitali.
Questa la realtà storica, comprovata dal volume del Simposio pontificio che consente di risalire anche ad altri studi, di matrice anche profondamente «laica». Le ricerche sono ancora in corso e, sotto il profilo scientifico, l’argomento appare del tutto sotto controllo. Servirà tutto ciò a scalfire la «leggenda nera»? Certamente no. Continueremo a vederla tristemente e ridicolmente trionfare negli shows televisivi (quelli di «divulgazione scientifica» e di «approfondimento» inclusi) e sui rotocalchi. La madre degli imbecilli è sempre incinta. Soprattutto se gli imbecilli sono anche in malafede.