Benedetto XVI
Incontro con il clero di Roma
Beatissimo Padre, vorrei esprimere innanzitutto la gratitudine mia e dei miei confratelli diaconi per il ministero che così provvidenzialmente la Chiesa ha ripristinato con il Concilio, ministero che ci consente di dare piena espressione alla nostra vocazione. Siamo impegnati in una grande varietà di compiti svolti in ambiti molto diversi: la famiglia, il lavoro, la parrocchia, la società, anche nelle missioni in Africa e America latina, ambiti da Lei già indicati nell’udienza che ci concesse in occasione del venticinquennale del diaconato romano. Ora il nostro numero è aumentato, siamo 108. E ci piacerebbe che Vostra Santità ci indicasse una iniziativa pastorale che possa diventare segno di una più incisiva presenza del diaconato permanente nella città di Roma, come accadde nei primi secoli della Chiesa romana. Infatti la condivisione di un obiettivo significativo, comune, da un lato farebbe crescere la coesione della fraternità diaconale, dall’altro darebbe una maggiore visibilità al nostro servizio in questa città. Consegniamo a Vostra Santità questo desiderio, di indicarci cioè una iniziativa da condividere nei modi e nelle forme che vorrà indicarci. A nome di tutti i diaconi saluto Vostra Santità con filiale affetto.
BENEDETTO XVI: Grazie per questa testimonianza di uno dei più di cento diaconi di Roma. Vorrei anch’io esprimere la mia gioia e la mia gratitudine al Concilio, perché ha restaurato questo importante ministero nella Chiesa universale. Devo dire che quando ero arcivescovo di Monaco non ho trovato forse più di tre o quattro diaconi e ho favorito molto questo ministero, perché mi sembra che appartenga alla ricchezza del ministero sacramentale nella Chiesa. Nello stesso tempo, può essere anche un collegamento tra il mondo laico, il mondo professionale, e il mondo del ministero sacerdotale. Perché molti diaconi continuano a svolgere le loro professioni e mantengono le loro posizioni, importanti o anche di vita semplice, mentre il sabato e la domenica lavorano nella Chiesa. Così testimoniano nel mondo di oggi, anche nel mondo del lavoro, la presenza della fede, il ministero sacramentale e la dimensione diaconale del sacramento dell’Ordine. Questo mi sembra molto importante: la visibilità della dimensione diaconale.
Naturalmente anche ogni sacerdote rimane diacono e deve sempre pensare a questa dimensione, perché il Signore stesso si è fatto nostro ministro, nostro diacono. Pensiamo al gesto della lavanda dei piedi, con cui esplicitamente si mostra che il Maestro, il Signore, fa il diacono e vuole che quanti lo seguono siano diaconi, svolgano questo ministero per l’umanità, fino al punto di aiutare anche a lavare i piedi sporchi degli uomini a noi affidati. Questa dimensione mi sembra di grande importanza.
In questa occasione mi viene in mente anche se forse non è immediatamente inerente al tema una piccola esperienza che ha annotato Paolo VI. Ogni giorno del Concilio è stato intronizzato il Vangelo. E il Pontefice ha detto ai cerimonieri che una volta avrebbe voluto fare lui stesso questa intronizzazione del Vangelo. Gli hanno detto: no, questo è compito dei diaconi e non del Papa, del Sommo Pontefice, dei Vescovi. Lui ha annotato nel suo diario: ma io sono anche diacono, rimango diacono e vorrei anche esercitare questo ministero del diacono mettendo sul trono la Parola di Dio. Dunque questo concerne noi tutti. I sacerdoti rimangono diaconi e i diaconi esplicitano nella Chiesa e nel mondo questa dimensione diaconale del nostro ministero. Questa intronizzazione liturgica della Parola di Dio ogni giorno durante il Concilio era sempre per noi un gesto di grande importanza: ci diceva chi era il vero Signore di quell’assemblea, ci diceva che sul trono c’è la Parola di Dio e noi esercitiamo il ministero per ascoltare e per interpretare, per offrire agli altri questa Parola. È ampiamente significativo per tutto quanto facciamo: intronizzare nel mondo la parola di Dio, la Parola vivente, Cristo. Che sia realmente Lui a governare la nostra vita personale e la nostra vita nelle parrocchie.
Poi Lei mi fa una domanda che, devo dire, va un po’ oltre le mie forze: quali sarebbero i compiti propri dei diaconi a Roma. So che il Cardinale Vicario conosce molto meglio di me le situazioni reali della città, della comunità diocesana di Roma. Io penso che una caratteristica del ministero dei diaconi è proprio la molteplicità delle applicazioni del diaconato. Nella Commissione Teologica Internazionale, alcuni anni fa, abbiamo studiato a lungo il diaconato nella storia e anche nel presente della Chiesa. E abbiamo scoperto proprio questo: non c’è un profilo unico. Quanto si deve fare, varia a seconda della preparazione delle persone, delle situazioni nelle quali si trovano. Ci possono essere applicazioni e concretizzazioni diversissime, sempre in comunione con il Vescovo e con la parrocchia, naturalmente. Nelle diverse situazioni si mostrano diverse possibilità, anche a seconda della preparazione professionale che eventualmente hanno questi diaconi: potrebbero essere impegnati nel settore culturale, oggi così importante, o potrebbero avere una voce e un posto significativo nel settore educativo. Pensiamo quest’anno proprio al problema dell’educazione come centrale per il nostro futuro, per il futuro dell’umanità.
Certo, il settore della carità era a Roma il settore originario, perché i titoli presbiterali e le diaconie erano centri della carità cristiana. Questo era fin dall’inizio nella città di Roma un settore fondamentale. Nella mia Enciclica Deus caritas est ho mostrato che non solo la predicazione e la liturgia sono essenziali per la Chiesa e per il ministero della Chiesa, ma lo è altrettanto l’essere per i poveri, per i bisognosi, il servizio della caritas nelle sue molteplici dimensioni. Quindi spero che in ogni tempo, in ogni diocesi, pur con situazioni diverse, questa rimarrà una dimensione fondamentale e anche prioritaria per l’impegno dei diaconi, sia pure non l’unica, come ci mostra anche la Chiesa primitiva, dove i sette diaconi erano stati eletti proprio per consentire agli apostoli di dedicarsi alla preghiera, alla liturgia, alla predicazione. Anche se poi Stefano si trova nella situazione di dover predicare agli ellenisti, agli ebrei di lingua greca, e così si allarga il campo della predicazione. Egli è condizionato, diciamo, dalle situazioni culturali, dove lui ha voce per rendere presente in questo settore la Parola di Dio e così anche rendere maggiormente possibile l’universalità della testimonianza cristiana, aprendo le porte a san Paolo, che fu testimone della sua lapidazione e poi, in un certo senso, suo successore nella universalizzazione della Parola di Dio. Non so se il Cardinale Vicario vuole aggiungere una parola; io non sono così vicino alle situazioni concrete.
(Cardinale Ruini): Padre Santo, posso solo confermare, come Lei diceva, che anche a Roma in concreto i diaconi lavorano in molti ambiti, per lo più nelle parrocchie, dove si occupano della pastorale della carità, ma per esempio molti anche nella pastorale della famiglia. Essendo sposati quasi tutti i diaconi, preparano al matrimonio, seguono le giovani coppie e così via. Poi danno anche un contributo significativo alla pastorale sanitaria, danno un contributo anche in Vicariato alcuni lavorano in Vicariato e, come ha sentito prima, nelle missioni. C’è qualche presenza missionaria di diaconi. Credo che, naturalmente, sul piano numerico l’impegno di gran lunga più rilevante è quello nelle parrocchie, ma ci sono anche altri ambiti che si stanno aprendo e proprio per questo abbiamo già oltre un centinaio di diaconi permanenti.
(Padre Graziano Bonfitto, vicario parrocchiale della parrocchia di Ognissanti)
Padre Santo, sono originario di un paese della provincia di Foggia, San Marco in Lamis. Sono un religioso di Don Orione e sacerdote da un anno e mezzo circa, attualmente vice parroco nella parrocchia di Ognissanti, nel quartiere Appio. Non le nascondo la mia emozione, ma anche la incredibile gioia che provo in questo momento, per me così privilegiato. Lei è il vescovo e il pastore della nostra Chiesa diocesana, ma è pur sempre il Papa, e quindi il Pastore della Chiesa universale. Per cui l’emozione è irrimediabilmente raddoppiata. Volevo prima di ogni cosa esprimerle la mia gratitudine per tutto ciò che, giorno dopo giorno, fa non solo per la nostra diocesi di Roma ma per la Chiesa intera. Le Sue parole e i Suoi gesti, le Sue attenzioni verso di noi, popolo di Dio, sono segno dell’amore e della vicinanza che Lei nutre per tutti e per ciascuno. Il mio apostolato sacerdotale si svolge in particolare tra i giovani. È proprio a nome loro che voglio oggi dirLe grazie. Il mio santo fondatore, san Luigi Orione, diceva che i giovani sono il sole o la tempesta del domani. Credo che in questo momento storico che ci troviamo a vivere i giovani sono tanto il sole quanto la tempesta, non del domani ma di ora, di adesso. Noi giovani oggi più che mai sentiamo forte il bisogno di avere delle certezze. Desideriamo sincerità, libertà, giustizia, pace. Vogliamo a fianco persone che camminano con noi, che si fanno nostri ascoltatori. Esattamente come Gesù con i discepoli di Emmaus. La gioventù desidera persone capaci di indicare la via della libertà, della responsabilità, dell’amore, della verità. Cioè, i giovani oggi hanno una sete inesauribile di Cristo. Una sete di testimoni gioiosi che hanno incontrato Gesù e hanno scommesso su di Lui tutta l’esistenza. I giovani vogliono una Chiesa sempre in campo e sempre più vicina alle loro esigenze. La vogliono presente nelle loro scelte di vita, anche se in loro permane un certo senso di distacco nei confronti della Chiesa stessa. Il giovane cerca una speranza affidabile come Lei ha scritto nell’ultima lettera indirizzata a noi fedeli di Roma per evitare di vivere senza Dio. Santo Padre mi permetta di chiamarla «papà» quanto è difficile vivere in Dio, con Dio e per Dio. La gioventù si sente insidiata da molte parti. Sono molti i falsi profeti, molti i venditori di illusioni. Sono troppi gli insinuatori di false verità e di ignobili ideali. Tuttavia la gioventù che crede oggi, pur sentendosi accerchiata, è convinta che Dio sia la speranza che resiste a tutte le delusioni, che solo il suo amore non può essere distrutto dalla morte, anche se il più delle volte non è facile trovare lo spazio e il coraggio per essere testimoni. Che fare allora? Come comportarsi? Vale effettivamente la pena continuare a scommettere la propria vita su Cristo? La vita, la famiglia, l’amore, la gioia, la giustizia, il rispetto delle opinioni altrui, la libertà, la preghiera e la carità sono valori ancora da difendere? La vita da beati, cioè misurata sulle beatitudini, è vita adatta all’uomo, al giovane del terzo millennio? Grazie infinite della Sua attenzione, del Suo affetto e della Sua premura per i giovani. La gioventù è con Lei: La stima, La ama e L’attende. Ci sia sempre vicino, ci indichi con sempre più forza il cammino che porta a Cristo, via, verità e vita. Ci stimoli a volare alto. Sempre più in alto. E preghi sempre per noi. Grazie.
BENEDETTO XVI: Grazie per questa bella testimonianza di un giovane sacerdote che va con i giovani, li accompagna, come Lei ha detto, e aiuta ad andare con Cristo, con Gesù. Cosa dire? Noi sappiamo tutti come è difficile per un giovane di oggi vivere da cristiano. Il contesto culturale, il contesto mediatico, offre tutt’altro che la strada verso Cristo. Sembra proprio rendere impossibile vedere Cristo come centro della vita e vivere la vita come Gesù ce la mostra. Tuttavia, mi sembra anche che molti sentano sempre di più l’insufficienza di tutte queste offerte, di questo stile di vita che alla fine lascia vuoti.
In questo senso, mi sembra proprio che le letture della liturgia di oggi, quella del Deuteronomio (30, 15-20) e il brano evangelico di Luca (9, 22-25), rispondano a quanto, in sostanza, dovremmo dire ai giovani e sempre di nuovo a noi stessi. Come Lei hai detto, la sincerità è fondamentale. I giovani devono sentire che non diciamo parole non vissute da noi stessi, ma parliamo perché abbiamo trovato e cerchiamo di trovare ogni giorno di nuovo la verità come verità per la mia vita. Solo se siamo in questo cammino, se cerchiamo di assimilare noi stessi a questa vita e di assimilare la nostra vita a quella del Signore, allora anche le parole possono essere credibili e avere una logica visibile e convincente. Ritorno: oggi questa è la grande regola fondamentale non solo per la Quaresima, ma per tutta la vita cristiana: scegli la vita. Hai davanti a te morte e vita: scegli la vita. E mi sembra che la risposta sia naturale. Sono solo pochi a nutrire nel profondo una volontà di distruzione, di morte, a non volere più l’essere, la vita, perché è tutto contraddittorio per loro. Purtroppo, però, si tratta di un fenomeno che si allarga. Con tutte le contraddizioni, le false promesse, alla fine la vita appare contraddittoria, non è più un dono ma una condanna e così c’è chi vuole più la morte che la vita. Ma normalmente l’uomo risponde: sì, voglio la vita.
La questione resta però quella di come trovare la vita, di che cosa scegliere, di come scegliere la vita. E le offerte che normalmente vengono fatte le conosciamo: andare in discoteca, prendere tutto quanto è possibile, considerare la libertà come il fare tutto quel che si vuole, tutto quel che viene in mente in un determinato momento. Ma sappiamo invece e possiamo mostrarlo che questa strada è una strada di menzogna, perché alla fine non si trova la vita ma si trova realmente l’abisso del niente. Scegli la vita. La stessa lettura dice: Dio è la tua vita, tu hai scelto la vita e tu hai fatto la scelta: Dio. Questo mi sembra fondamentale. Solo così il nostro orizzonte è sufficientemente largo e solo così siamo alla fonte della vita, che è più forte della morte, di tutte le minacce della morte. Quindi, la scelta fondamentale è questa qui indicata: scegli Dio. Bisogna capire che chi va sulla strada senza Dio, si trova alla fine nell’oscurità, anche se possono esserci momenti in cui sembra di aver trovato la vita.
Poi un ulteriore passo è come trovare Dio, come scegliere Dio. Qui arriviamo al Vangelo: Dio non è un ignoto, un’ipotesi forse del primo inizio del cosmo. Dio ha carne e ossa. È uno di noi. Lo conosciamo con il suo volto, con il suo nome. È Gesù Cristo che ci parla nel Vangelo. È uomo e Dio. Ed essendo Dio, ha scelto l’uomo per rendere possibile a noi la scelta di Dio. Quindi bisogna entrare nella conoscenza e poi nell’amicizia di Gesù per camminare con Lui.
Mi sembra che questo sia il punto fondamentale nella nostra cura pastorale per i giovani, per tutti ma soprattutto per i giovani: attirare l’attenzione sulla scelta di Dio, che è la vita. Sul fatto che Dio c’è. E c’è in modo molto concreto. E insegnare l’amicizia con Gesù Cristo.
C’è anche un terzo passo. Questa amicizia con Gesù non è un’amicizia con una persona irreale, con qualcuno che appartiene al passato o che sta lontano dagli uomini, alla destra di Dio. Egli è presente nel suo corpo, che è ancora un corpo in carne e ossa: è la Chiesa, la comunione della Chiesa. Dobbiamo costruire e rendere più accessibili comunità che riflettono, che sono lo specchio della grande comunità della Chiesa vitale. È un insieme: l’esperienza vitale della comunità, con tutte le debolezze umane, ma tuttavia reale, con una strada chiara, e una solida vita sacramentale, nella quale possiamo toccare anche ciò che a noi può sembrare così lontano, la presenza del Signore. In questo modo possiamo anche imparare i comandamenti per ritornare al Deuteronomio, da cui sono partito. Perché la lettura dice: scegliere Dio vuol dire scegliere secondo la sua Parola, vivere secondo la Parola. Per un momento questo appare un po’ positivista quasi: sono imperativi. Ma la prima cosa è il dono: la sua amicizia. Poi possiamo capire che gli indicatori di strada sono esplicazioni della realtà di questa nostra amicizia.
Questa, possiamo dire, è una visione generale, quale scaturisce dal contatto con la Sacra Scrittura e la vita della Chiesa di ogni giorno. Poi si traduce passo per passo negli incontri concreti con i giovani: guidarli al dialogo con Gesù nella preghiera, nella lettura della Sacra Scrittura la lettura comune soprattutto, ma anche personale e nella vita sacramentale. Sono tutti passi per rendere presenti queste esperienze nella vita professionale, anche se il contesto spesso è segnato dalla piena assenza di Dio e dalla apparente impossibilità di vederlo presente. Ma proprio allora, attraverso la nostra vita e la nostra esperienza di Dio, dobbiamo cercare di far entrare anche in questo mondo lontano da Dio la presenza di Cristo.
La sete di Dio c’è. Ho avuto poco tempo fa la vista ad limina di Vescovi di un paese dove più del cinquanta per cento si dichiara ateo o agnostico. Ma mi hanno detto: in realtà tutti hanno sete di Dio. Nascostamente esiste questa sete. Perciò prima cominciamo noi, con i giovani che possiamo trovare. Formiamo comunità nelle quali si riflette la Chiesa, impariamo l’amicizia con Gesù. E così, pieni di questa gioia e di questa esperienza, possiamo anche oggi rendere presente Dio in questo nostro mondo.
(Don Pietro Riggi, salesiano del Borgo Ragazzi Don Bosco)
Santo Padre, lavoro in un oratorio e in un centro di accoglienza per minori a rischio. Le volevo chiedere: il 25 marzo 2007 Lei ha fatto un discorso a braccio, lamentandosi come oggi si parli poco dei Novissimi. In effetti, nei catechismi della Cei usati per l’insegnamento della nostra fede ai ragazzi di confessione, comunione e cresima, mi sembra che siano omesse alcune verità di fede. Non si parla mai di inferno, mai di purgatorio, una sola volta di paradiso, una sola volta di peccato, soltanto il peccato originale. Mancando queste parti essenziali del credo, non Le sembra che crolli il sistema logico che porta a vedere la redenzione di Cristo? Mancando il peccato, non parlando di inferno, anche la redenzione di Cristo viene a essere sminuita. Non Le sembra che sia favorita la perdita del senso del peccato e quindi del sacramento della riconciliazione e la stessa figura salvifica, sacramentale del sacerdote che ha il potere di assolvere e di celebrare in nome di Cristo? Oggi purtroppo anche noi sacerdoti, quando nel Vangelo si parla di inferno, dribbliamo il Vangelo stesso. Non se ne parla. O non sappiamo parlare di paradiso. Non sappiamo parlare di vita eterna. Rischiamo di dare alla fede una dimensione soltanto orizzontale oppure troppo distaccata, l’orizzontale dal verticale. E questo purtroppo nella catechesi ai ragazzi, se non nell’iniziativa dei parroci, nella struttura portante, viene a mancare. Se non sbaglio, quest’anno ricorre anche il venticinquesimo anniversario della consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria. Per l’occasione non si può pensare di rinnovare solennemente questa consacrazione per il mondo intero? È crollato il muro di Berlino, ma vi sono tanti muri di peccato che devono crollare ancora: l’odio, lo sfruttamento, il capitalismo selvaggio. Muri che devono crollare e ancora aspettiamo che trionfi il Cuore immacolato di Maria per poter realizzare anche questa dimensione. Volevo anche notare come la Madonna non ha avuto paura di parlare dell’inferno e del paradiso ai bambini di Fátima, che, guarda caso, avevano l’età dei catechismo: sette, nove e dodici anni. E noi tante volte invece omettiamo questo. Può dirci qualche cosa in più su questo?
BENEDETTO XVI: Lei ha parlato giustamente su temi fondamentali della fede, che purtroppo appaiono raramente nella nostra predicazione. Nell’Enciclica Spe salvi ho voluto proprio parlare anche del giudizio ultimo, del giudizio in generale, e in questo contesto anche su purgatorio, inferno e paradiso. Penso che noi tutti siamo ancora sempre colpiti dall’obiezione dei marxisti, secondo cui i cristiani hanno solo parlato dell’aldilà e hanno trascurato la terra. Così noi vogliamo dimostrare che realmente ci impegniamo per la terra e non siamo persone che parlano di realtà lontane, che non aiutano la terra. Ora, benché sia giusto mostrare che i cristiani lavorano per la terra e noi tutti siamo chiamati a lavorare perché questa terra sia realmente una città per Dio e di Dio non dobbiamo dimenticare l’altra dimensione. Senza tenerne conto, non lavoriamo bene per la terra. Mostrare questo è stato uno degli scopi fondamentali per me nello scrivere l’Enciclica. Quando non si conosce il giudizio di Dio, non si conosce la possibilità dell’inferno, del fallimento radicale e definitivo della vita, non si conosce la possibilità e la necessità della purificazione. Allora l’uomo non lavora bene per la terra perché perde alla fine i criteri, non conosce più se stesso, non conoscendo Dio, e distrugge la terra. Tutte le grandi ideologie hanno promesso: noi prenderemo in mano le cose, non trascureremo più la terra, creeremo il mondo nuovo, giusto, corretto, fraterno. Invece, hanno distrutto il mondo. Lo vediamo con il nazismo, lo vediamo anche con il comunismo, che hanno promesso di costruire il mondo così come avrebbe dovuto essere e, invece, hanno distrutto il mondo.
Nelle visite ad limina dei Vescovi di Paesi ex comunisti, vedo sempre di nuovo come in quelle terre siano rimasti distrutti non solo il pianeta, l’ecologia, ma soprattutto e più gravemente le anime. Ritrovare la coscienza veramente umana, illuminata dalla presenza di Dio, è il primo lavoro di riedificazione della terra. Questa è l’esperienza comune di quei Paesi. La riedificazione della terra, rispettando il grido di sofferenza di questo pianeta, si può realizzare soltanto ritrovando nell’anima Dio, con gli occhi aperti verso Dio.
Perciò Lei ha ragione: dobbiamo parlare di tutto questo proprio per responsabilità verso la terra, verso gli uomini che oggi vivono. Dobbiamo parlare anche e proprio del peccato come possibilità di distruggere se stessi e così anche altre parti della terra. Nell’Enciclica ho cercato di dimostrare che proprio il giudizio ultimo di Dio garantisce la giustizia. Tutti vogliamo un mondo giusto. Ma non possiamo riparare tutte le distruzioni del passato, tutte le persone ingiustamente tormentate e uccise. Solo Dio stesso può creare la giustizia, che deve essere giustizia per tutti, anche per i morti. E come dice Adorno, un grande marxista, solo la risurrezione della carne, che lui ritiene irreale, potrebbe creare giustizia. Noi crediamo in questa risurrezione della carne, nella quale non tutti saranno uguali. Oggi si è abituati a pensare: che cosa è il peccato, Dio è grande, ci conosce, quindi il peccato non conta, alla fine Dio sarà buono con tutti. È una bella speranza. Ma c’è la giustizia e c’è la vera colpa. Coloro che hanno distrutto l’uomo e la terra non possono sedere subito alla tavola di Dio insieme con le loro vittime. Dio crea giustizia. Dobbiamo tenerlo presente. Perciò mi sembrava importante scrivere questo testo anche sul purgatorio, che per me è una verità così ovvia, così evidente e anche così necessaria e consolante, che non può mancare. Ho cercato di dire: forse non sono tanti coloro che si sono distrutti così, che sono insanabili per sempre, che non hanno più alcun elemento sul quale possa poggiare l’amore di Dio, non hanno più in se stessi un minimo di capacità di amare. Questo sarebbe l’inferno. D’altra parte, sono certamente pochi o comunque non troppi coloro che sono così puri da poter entrare immediatamente nella comunione di Dio. Moltissimi di noi sperano che ci sia qualcosa di sanabile in noi, che ci sia una finale volontà di servire Dio e di servire gli uomini, di vivere secondo Dio. Ma ci sono tante e tante ferite, tanta sporcizia. Abbiamo bisogno di essere preparati, di essere purificati. Questa è la nostra speranza: anche con tante sporcizie nella nostra anima, alla fine il Signore ci dà la possibilità, ci lava finalmente con la sua bontà che viene dalla sua croce. Ci rende così capaci di essere in eterno per Lui. E così il paradiso è la speranza, è la giustizia finalmente realizzata. E ci dà anche i criteri per vivere, perché questo tempo sia in qualche modo paradiso, sia una prima luce del paradiso. Dove gli uomini vivono secondo questi criteri, appare un po’ di paradiso nel mondo, e questo è visibile. Mi sembra anche una dimostrazione della verità della fede, della necessità di seguire la strada dei comandamenti, di cui dobbiamo parlare di più. Questi sono realmente indicatori di strada e ci mostrano come vivere bene, come scegliere la vita. Perciò dobbiamo anche parlare del peccato e del sacramento del perdono e della riconciliazione. Un uomo sincero sa che è colpevole, che dovrebbe ricominciare, che dovrebbe essere purificato. E questa è la meravigliosa realtà che ci offre il Signore: c’è una possibilità di rinnovamento, di essere nuovi. Il Signore comincia con noi di nuovo e noi possiamo ricominciare così anche con gli altri nella nostra vita.
Questo aspetto del rinnovamento, della restituzione del nostro essere dopo tante cose sbagliate, dopo tanti peccati, è la grande promessa, il grande dono che la Chiesa offre. E che, per esempio, la psicoterapia non può offrire. La psicoterapia oggi è così diffusa e anche necessaria di fronte a tante psichi distrutte o gravemente ferite. Ma le possibilità della psicoterapia sono molto limitate: può solo cercare un po’ di riequilibrare un’anima squilibrata. Ma non può dare un vero rinnovamento, un superamento di queste gravi malattie dell’anima. E perciò rimane sempre provvisoria e mai definitiva. Il sacramento della penitenza ci dà l’occasione di rinnovarci fino in fondo con la potenza di Dio ego te absolvo che è possibile perché Cristo ha preso su di sé questi peccati, queste colpe. Mi sembra che questa sia proprio oggi una grande necessità. Possiamo essere risanati. Le anime che sono ferite e malate, come è l’esperienza di tutti, hanno bisogno non solo di consigli ma di un vero rinnovamento, che può venire solo dal potere di Dio, dal potere dell’Amore crocifisso. Mi sembra questo il grande nesso dei misteri che alla fine incidono realmente nella nostra vita. Dobbiamo noi stessi rimeditarli e così farli arrivare di nuovo alla nostra gente.
(Don Massimo Tellan, parroco di Sant’Enrico)
Sono Don Massimo Tellan, sacerdote da quindici anni, da sei parroco a Casal Monastero, settore nord. Credo che tutti ci rendiamo conto di vivere sempre di più immersi in un mondo culturalmente inflazionato da parole, spesso prive persino di significato, che disorientano il cuore umano a tal punto da renderlo sordo alla parola di verità. Quella Parola eterna che si è fatta carne e ha assunto un volto in Gesù di Nazareth diviene così per molti evanescente, e soprattutto per le nuove generazioni, inconsistente e lontana. Certamente confusa nella selva di immagini ambigue ed effimere da cui si è bombardati quotidianamente. Allora che spazio dare nell’educare alla fede, a questo binomio di parola da accogliere e immagine da contemplare? Dove è finita l’arte del raccontare la fede e dell’introdurre al mistero, come avveniva in passato con la biblia pauperum? Nell’odierna società dell’immagine come possiamo recuperare la forza prorompente del vedere, che accompagna il mistero dell’incarnazione e dell’incontro con Gesù, come avvenne per Giovanni e Andrea sulle rive del Giordano, invitati ad andare e vedere dove abitava il maestro? In altre parole: come educare alla ricerca e alla contemplazione di quella vera bellezza che, come scriveva Dostoevskij, salverà il mondo? Grazie, Santità, della Sua attenzione, e se mi permette, anche con il consenso dei confratelli, oltreché da sacerdote di questo presbiterio anche da artista dilettante, vorrei accompagnare quanto detto donandole un’icona del Cristo alla colonna, immagine di quell’umanità sofferente e umiliata che il Verbo ha voluto assumere non solo sino all’Ecce homo, ma fino alla morte di Croce, e al contempo immagine attuale della Chiesa Corpo mistico del Cristo, sovente ferita dall’arroganza del male, ma chiamata col suo Signore, ad abbracciare il peccato del mondo per redimerlo con il suo sacrificarsi con Gesù. Grazie, Padre Santo, e grazie anche ai miei confratelli. Tutti loro, ogni giorno più di me e meglio di me, sono impegnati a mostrare al mondo con la propria testimonianza di vita il volto attuale del Maestro. Se è vero, come lo è, che chi ha visto il Figlio ha visto il Padre, così chi vede noi, sua Chiesa, possa vedere il Cristo.
BENEDETTO XVI: Grazie per questo bellissimo dono. Sono grato che non abbiamo soltanto parole, ma anche immagini. Vediamo che anche oggi dalla meditazione cristiana nascono nuove immagini, rinasce la cultura cristiana, l’iconografia cristiana. Si, viviamo nell’inflazione delle parole, delle immagini. Quindi è difficile creare spazio per la parola e l’immagine. Mi sembra che proprio nella situazione del nostro mondo, che conosciamo tutti, che è anche la nostra sofferenza, la sofferenza di ognuno, il tempo della Quaresima guadagni un nuovo significato. Certo il digiuno corporale, per un certo tempo considerato non più alla moda, oggi appare a tutti come necessario. Non è difficile capire che dobbiamo digiunare. A volte ci troviamo anche di fronte a certe esagerazioni dovute ad un ideale di bellezza sbagliato. Ma in ogni caso il digiuno corporale è una cosa importante, perché siamo corpo e anima e la disciplina del corpo, la disciplina anche materiale, è importante per la vita spirituale che è sempre vita incarnata in una persona che è corpo e anima.
Questa è una dimensione. Oggi crescono e si manifestano altre dimensioni. Mi sembra che il tempo della Quaresima potrebbe proprio essere anche un tempo di digiuno dalle parole e dalle immagini. Abbiamo bisogno di un po’ di silenzio, abbiamo bisogno di uno spazio senza il bombardamento permanente delle immagini. In questo senso, rendere accessibile e comprensibile oggi il significato di quaranta giorni di disciplina esteriore e interiore è molto importante per aiutarci a capire che una dimensione della nostra Quaresima, di questa disciplina corporale e spirituale, è crearci spazi di silenzio e anche senza immagini, per riaprire il nostro cuore all’immagine vera e alla parola vera. Mi sembra promettente che anche oggi si veda che c’è una rinascita dell’arte cristiana, sia di una musica meditativa come per esempio quella nata a Taizé sia anche, riallacciandoci all’arte dell’icona, ad un’arte cristiana che rimane, diciamo, nelle grandi normative dell’arte iconologica del passato, ma allargandosi alle esperienze e alle visioni di oggi. Laddove c’è una vera e profonda meditazione della Parola, dove entriamo realmente nella contemplazione di questa visibilità di Dio nel mondo, di questa toccabilità di Dio nel mondo, nascono anche nuove immagini, nuove possibilità di rendere visibili gli avvenimenti della salvezza. È proprio questa la conseguenza dell’evento dell’incarnazione. L’Antico Testamento vietava ogni immagine e doveva vietarlo in un mondo pieno di divinità. Esso viveva proprio nel grande vuoto che era anche rappresentato dall’interno del tempio, dove, in contrasto con altri templi, non c’era nessuna immagine, ma solo il trono vuoto della Parola, la presenza misteriosa del Dio invisibile, non circoscritto da nostre immagini.
Ma poi il passo nuovo è che questo Dio misterioso ci libera dall’inflazione delle immagini, anche di un tempo pieno di immagini di divinità, e ci dà la libertà della visione dell’essenziale. Appare con un volto, con un corpo, con una storia umana che, nello stesso tempo, è una storia divina. Una storia che continua nella storia dei santi, dei martiri, dei santi della carità, della parola, che sono sempre esplicazione, continuazione nel Corpo di Cristo di questa sua vita divina e umana, e ci dà le immagini fondamentali nelle quali al di là di quelle superficiali che nascondono la realtà possiamo aprire lo sguardo verso la Verità stessa. In questo senso mi sembra eccessivo il periodo iconoclastico del dopo Concilio, che aveva tuttavia un suo senso, perchè era forse necessario liberarsi da una superficialità delle troppe immagini.
Adesso torniamo alla conoscenza del Dio che si è fatto uomo. Come ci dice la Lettera agli Efesini, Lui è la vera immagine. E in questa vera immagine vediamo oltre le apparenze che nascondono la verità la Verità stessa: “Chi vede me, vede il Padre”. In questo senso direi che, con molto rispetto e con molta reverenza, possiamo ritrovare un’arte cristiana e anche ritrovare le essenziali e grandi rappresentazioni del mistero di Dio nella tradizione iconografica della Chiesa. E così potremo riscoprire l’immagine vera, coperta dalle apparenze. È realmente un lavoro importante dell’educazione cristiana: la liberazione per la Parola dietro le parole, che esige sempre di nuovo spazi di silenzio, di meditazione, di approfondimento, di astinenza, di disciplina. E ugualmente l’educazione alla vera immagine, cioè alla riscoperta delle grandi icone create nella storia nella cristianità: con l’umiltà ci si libera da immagini superficiali. Questo tipo di iconoclasma è sempre necessario per riscoprire l’Immagine, cioè le immagini fondamentali che esprimono la presenza di Dio nella carne.
Questa è una dimensione fondamentale dell’educazione alla fede, al vero umanesimo, che cerchiamo in questo tempo a Roma. Siamo tornati a riscoprire l’icona con le sue regole molto severe, senza le bellezze rinascimentali. E così possiamo anche noi rientrare in un cammino di riscoperta umile delle grandi immagini, verso una sempre nuova liberazione dalle troppe parole, dalle troppe immagini, per riscoprire le immagini essenziali che sono necessarie per noi. Dio stesso ci ha mostrato la sua immagine e noi possiamo ritrovare questa immagine con una profonda meditazione della Parola che fa rinascere le immagini.
Allora, preghiamo il Signore che ci aiuti in questo cammino di vera educazione, di rieducazione alla fede, che è sempre non solo un ascoltare ma anche un vedere.
(Don Paul Chungat, vicario parrocchiale di San Giuseppe Cottolengo)
Mi chiamo don Chungat, indiano, attualmente vicario della parrocchia di San Giuseppe a Valle Aurelia. Vorrei ringraziarLa per l’opportunità che mi ha dato di servire nella diocesi di Roma per tre anni. Questo è stato per me, per i miei studi, un grande aiuto, così come credo che lo sia per tutti i sacerdoti studenti che restano a Roma. Ormai è arrivato il tempo di tornare alla mia diocesi in India dove i cattolici sono solo l’uno per cento mentre il novantanove per cento sono non cristiani. La cosa che in questi giorni mi ha dato da pensare molto è la situazione dell’evangelizzazione missionaria nella mia patria. Nella recente nota della Congregazione per la Dottrina della Fede ci sono alcune parole difficili da capire nel campo del dialogo interreligioso. Ad esempio al numero 10 c’è scritto «pienezza della salvezza», e nella parte introduttiva si legge «necessità di incorporazione formale nella Chiesa». Si tratta di concetti difficili da far capire quando io porterò queste cose in India e dovrò parlare ai miei amici induisti e ai fedeli di altre religioni. La mia domanda è: pienezza della salvezza va intesa in senso qualitativo o in senso quantitativo? Se quantitativo c’è un po’ di difficoltà. Il Concilio Vaticano II dice che c’è possibilità di un seme di luce anche nelle altre fedi. Se in senso qualitativo, oltre alla storicità e alla pienezza della fede, quali sono le altre cose per mostrare l’unicità della nostra fede riguardo al dialogo interreligioso?
BENEDETTO XVI: Grazie per questo intervento. Lei sa bene che per l’ampiezza delle Sue domande ci sarebbe bisogno di un semestre di teologia! Cercherò di essere breve. Lei conosce la teologia, ci sono grandi maestri e tanti libri. Innanzitutto grazie per questa Sua testimonianza, perché Lei si dice gioioso di poter lavorare a Roma anche se indiano. Per me questo è un fenomeno meraviglioso della cattolicità. Adesso non solo i missionari vanno dall’occidente negli altri continenti, ma c’è uno scambio di doni: indiani, africani, sudamericani lavorano da noi e i nostri vanno negli altri continenti. È un dare e ricevere da tutte le parti; è proprio questa la vitalità della cattolicità, dove tutti siamo debitori dei doni del Signore, e poi possiamo donare l’uno all’altro. È in questa reciprocità dei doni, del dare e del ricevere, che vive la Chiesa cattolica. Voi potete imparare da questi ambienti e esperienze occidentali e noi non meno da voi. Vedo che proprio questo spirito di religiosità che esiste in Asia, come in Africa, sorprende gli europei che sono spesso un po’ freddi nella fede. E così questa vivacità, almeno dello spirito religioso che esiste in questi continenti, è un grande dono per tutti noi, soprattutto per noi Vescovi del mondo occidentale e in particolare di quei Paesi in cui più marcato è il fenomeno dell’immigrazione, dalle Filippine, dall’India, eccetera. Il nostro cattolicesimo freddo è ravvivato da questo fervore che viene da voi. Quindi la cattolicità è un grande dono.
Veniamo alle domande che Lei mi ha posto. Non ho davanti in questo momento le parole esatte del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede da Lei richiamato; ma in ogni caso vorrei dire due cose. Da una parte, è assolutamente necessario il dialogo, conoscersi reciprocamente, rispettarsi e cercare di collaborare in tutti i modi possibili per i grandi scopi dell’umanità, o per i suoi grandi bisogni, per superare i fanatismi e creare uno spirito di pace e di amore. E questo è anche nello spirito del Vangelo, il cui senso è proprio che lo spirito di amore, che abbiamo imparato da Gesù, la pace di Gesù che Egli ci ha donato mediante la croce, diventi presente universalmente nel mondo. In questo senso il dialogo deve essere vero dialogo, nel rispetto dell’altro e nell’ accettazione della sua alterità; ma deve essere anche evangelico, nel senso che il suo scopo fondamentale è aiutare gli uomini a vivere nell’amore e a far sì che questo amore si possa espandere in tutte le parti del mondo.
Ma questa dimensione del dialogo, così necessaria, cioè quella del rispetto dell’altro, della tolleranza, della cooperazione, non esclude l’altra, cioè che il Vangelo è un grande dono, il dono del grande amore, della grande verità, che non possiamo avere solo per noi stessi, ma che dobbiamo offrire agli altri, considerando che Dio dà loro la libertà e la luce necessaria per trovare la verità. È questa la verità. E quindi questa è anche la mia strada. La missione non è imposizione, ma è un offrire il dono di Dio, lasciando alla Sua bontà di illuminare le persone affinché si estenda il dono dell’amicizia concreta con il Dio dal volto umano. Perciò vogliamo e dobbiamo sempre testimoniare questa fede e l’amore che vive nella nostra fede. Avremmo trascurato un dovere vero, umano e divino, se avessimo lasciato gli altri soli e se avessimo riservato la fede che abbiamo solo per noi. Saremmo infedeli anche a noi stessi, se non offrissimo questa fede al mondo, pur sempre rispettando la libertà degli altri. La presenza della fede nel mondo è un elemento positivo, anche se non si converte nessuno; è un punto di riferimento.
Mi hanno detto esponenti di religioni non cristiane: per noi la presenza del cristianesimo è un punto di riferimento che ci aiuta, anche se non ci convertiamo. Pensiamo alla grande figura del Mahatma Gandhi: pur essendo fermamente legato alla sua religione, per lui il Discorso della montagna era un punto fondamentale di riferimento, che ha formato tutta la sua vita. E così il fermento della fede, pur non convertendolo al cristianesimo, è entrato nella sua vita. E mi pare che questo fermento dell’amore cristiano che traspare dal Vangelo è oltre al lavoro missionario che cerca di allargare gli spazi della fede un servizio che rendiamo all’umanità.
Pensiamo a san Paolo. Ho riapprofondito poco tempo fa la sua motivazione missionaria. Ne ho parlato anche alla Curia in occasione dell’incontro di fine d’anno. Lui era commosso dalla parola del Signore nel suo sermone escatologico. Prima di ogni avvenimento, prima del ritorno del Figlio dell’uomo, il Vangelo deve essere predicato a tutte le genti. Condizione perché il mondo raggiunga la sua perfezione, per la sua apertura al paradiso, è che il Vangelo sia annunciato a tutti. Egli pose tutto lo zelo missionario affinché il Vangelo potesse arrivare a tutti possibilmente già nella sua generazione, per rispondere al comandamento del Signore «perché sia annunciato a tutte le genti». Il suo desiderio non era tanto di battezzare tutte le genti, quanto la presenza del Vangelo nel mondo e dunque il compimento della storia come tale. Mi sembra che oggi, vedendo l’andamento della storia, si possa capire meglio che questa presenza della Parola di Dio, che questo annuncio che arriva a tutti come fermento, è necessario perché il mondo possa realmente giungere al suo scopo. In questo senso noi vogliamo sì la conversione di tutti, ma lasciamo che sia il Signore ad agire. Importante è che chi vuole convertirsi ne abbia la possibilità e che appaia sul mondo per tutti questa luce del Signore come punto di riferimento e come luce che aiuta, senza la quale il mondo non può trovare se stesso. Non so se mi sono spiegato bene: dialogo e missione non solo non si escludono, ma l’uno chiede l’altra.
(Don Alberto Orlando, vicario parrocchiale di Santa Maria Madre della Provvidenza)
Sono don Alberto Orlando, vice parroco della parrocchia di Santa Maria Madre della Provvidenza. Vorrei rappresentarLe una difficoltà vissuta a Loreto con i giovani lo scorso anno. A Loreto abbiamo trascorso una giornata bellissima, ma tra le tante cose belle abbiamo notato una certa distanza tra Lei e i giovani. Siamo arrivati il pomeriggio. Non siamo riusciti né a sistemarci, né a vedere, né a sentire. Quando poi è arrivata la sera Lei è andato via e noi siamo come rimasti in balia della televisione, che in un certo senso ci ha usato. I giovani però hanno bisogno di calore. Una ragazza per esempio mi ha detto: «Normalmente il Papa ci chiama “cari giovani”, invece oggi ci ha chiamato “giovani amici”». Ed era molto contenta per questo. Come mai non sottolineare questo particolare, questa vicinanza? Anche il collegamento televisivo con Loreto era molto freddo, molto lontano; anche il momento della preghiera ha vissuto delle difficoltà perché era legato a dei punti luce rimasti chiusi sino a tardi, almeno sino a quando non è terminato lo spettacolo televisivo. La seconda cosa invece che ci ha creato qualche difficoltà è stata la liturgia del giorno dopo, un po’ pesante soprattutto per quanto riguarda canti e musica. Al momento dell’alleluja, per farLe un esempio, una ragazza ha notato che, nonostante il caldo, queste canzoni e queste musiche si protraevano in tempi lunghissimi, quasi che a nessuno importasse dei disagi di chi era stretto nella calca. E si trattava di ragazzi che tutte le domeniche frequentano la messa. Ecco le due domande: come mai questa distanza tra Lei e loro; e poi come conciliare il tesoro della liturgia in tutta la solennità con il sentimento, l’affetto e l’emotività che nutre i giovani e dei quali essi hanno tanto bisogno? Vorrei anche un consiglio: come regolarci tra solennità e emotività. Anche perché siamo noi stessi sacerdoti a chiederci spesso quanto noi preti siamo capaci di vivere con semplicità l’emozione e il sentimento. Ed essendo noi i ministri del sacramento vorremmo essere in grado di orientare sentimento e emotività verso un giusto equilibrio.
BENEDETTO XVI: Il primo punto propostomi è legato alla situazione organizzativa: io l’ho trovata così come era, quindi non so se era possibile magari organizzare in modo diverso. Considerando le migliaia di persone che c’erano, era impossibile, credo, far sì che tutti potessero essere vicini allo stesso modo. Anzi, per questo abbiamo seguito un percorso con la macchina, per avere un po’ di vicinanza con le singole persone. Però terremo conto di questo e vedremo se in futuro, in altri incontri con migliaia e migliaia di persone, sarà mai possibile fare qualcosa di diverso. Mi sembra tuttavia importante che cresca il sentimento di una vicinanza interiore, che trovi il ponte che ci unisce anche se localmente distanti.
Un grande problema è quello invece delle liturgie alle quali partecipano masse di persone. Mi ricordo nel 1960, durante il grande congresso eucaristico internazionale di Monaco, si cercava di dare una nuova fisionomia ai congressi eucaristici, che sino ad allora erano soltanto atti di adorazione. Si voleva mettere al centro la celebrazione dell’Eucaristia come atto della presenza del mistero celebrato. Ma subito è nata la domanda sul come fosse possibile. Per adorare, si diceva, lo si può fare anche a distanza; ma per celebrare è necessaria una comunità limitata che possa interagire con il mistero, dunque una comunità che doveva essere assemblea attorno alla celebrazione del mistero. Molti erano quelli contrari alla celebrazione dell’Eucaristia in pubblico con centomila persone. Dicevano che non era possibile proprio per la struttura stessa dell’Eucaristia, che esige la comunità per la comunione. Erano anche grandi personalità, molto rispettabili, quelle contrarie a questa soluzione. Poi il professor Jungmann, grande liturgista, uno dei grandi architetti della riforma liturgica, ha creato il concetto di statio orbis, cioè è tornato alla statio Romae dove proprio nel tempo della Quaresima i fedeli si raccolgono in un punto, la statio: quindi sono in statio come i soldati per Cristo, poi vanno insieme all’Eucaristia. Se questa, ha detto, era la statio della città di Roma, dove la città di Roma si riunisce, allora questa è la statio orbis. E dal quel momento abbiamo le celebrazioni eucaristiche con la partecipazione delle masse. Per me, devo dire, rimane un problema, perché la comunione concreta nella celebrazione è fondamentale e quindi non trovo che la risposta definitiva sia stata realmente trovata. Anche nel Sinodo scorso ho fatto emergere questa domanda, che però non ha trovato risposta. Anche un’altra domanda ho fatto fare, sulla concelebrazione in massa: perché se concelebrano, per esempio, mille sacerdoti, non si sa se c’è ancora la struttura voluta dal Signore. Ma in ogni caso sono domande. E così si è presentata a lei la difficoltà nel partecipare ad una celebrazione di massa durante la quale non è possibile che tutti siano ugualmente coinvolti. Si deve dunque scegliere un certo stile, per conservare quella dignità che è sempre necessaria per l’Eucaristia, e quindi la comunità non è uniforme e l’esperienza della partecipazione all’avvenimento è diversa; per alcuni è certamente insufficiente. Ma non è dipesa da me, piuttosto da quanti si sono occupati della preparazione.
Si deve riflettere bene dunque sul cosa fare in queste situazioni, come rispondere alle sfide di questa situazione. Se non sbaglio, era un’orchestra di handicappati ad eseguire le musiche e forse l’idea era proprio quella di far capire che gli handicappati possono essere animatori della sacra celebrazione e proprio loro non devono essere esclusi ma agenti primari. E così tutti, amando loro, non si sono sentiti esclusi ma anzi coinvolti. Mi sembra una riflessione molto rispettabile e io la condivido. Naturalmente però rimane il problema fondamentale. Ma mi sembra che anche qui, sapendo che cosa è l’Eucaristia, anche se non si ha la possibilità di un’attività esteriore come si desidererebbe per sentirsi compartecipi, vi si entra con il cuore, come dice l’antico imperativo nella Chiesa, creato forse proprio per quelli che stavano dietro nella basilica: «In alto i cuori! Adesso tutti usciamo da noi stessi, così tutti siamo con il Signore e siamo insieme». Come detto, non nego il problema, ma se seguiamo realmente questa parola «In alto i nostri cuori» troveremo tutti, anche in situazioni difficili ed a volte discutibili, la vera partecipazione attiva.
(Monsignor Renzo Martinelli, delegato della Pontificia Accademia dell’Immacolata)
Santo Padre volevo innanzitutto ringraziarla anche delle esplicitazioni che ha fatto domenica scorsa all’Angelus, al riguardo delle sue intenzioni, perché noi i fedeli sempre li educhiamo a pregare per il Papa e quando Lei dice di pregare per i consacrati, di pregare per la giornata della vita, di pregare per i frutti di conversione della Quaresima, ecco esplicitare questo diventa ancora più evidente una comunione interiore, ma anche consapevole di essere vicini alle Sue intenzioni. Anche in questi giorni la grazia di poter pregare davanti all’Immacolata nell’anniversario di Lourdes. Ritornando al problema dell’emergenza educativa, la domanda è questa: Lei ha detto di recente ai Vescovi sloveni questa frase: «Se per esempio si concepisce l’uomo secondo una tendenza oggi diffusa in modo individualistico», come giustificare lo sforzo per la costruzione di una comunità giusta e solidale. Allora questa mentalità individualistica io sono entrato in seminario a undici anni e sono stato educato un po’ in una mentalità in cui c’era il mio io e poi accanto al mio io un altro io un po’ moralistico per conformarsi a Cristo e alla fine la mia libertà come dice Lei nel suo libro Gesù di Nazaret era come gestita in modo da schiavo, come schiavitù, quando commenta il fratello maggiore della parabola del figliol prodigo. E tutto questo crea una divisione: come invece proporre ai giovani quello su cui Lei da sempre ha insistito, e cioè che l’io del cristiano, una volta che è investito da Cristo non è più io. L’identità del cristiano, Lei ha detto a Verona molto approfonditamente, è l’io non più io perché c’è il soggetto comunionale di Cristo. Come proporre Santità questa conversione, questa modalità nuova, questa originalità cristiana di essere una comunione che propone efficacemente la novità della esperienza cristiana.
BENEDETTO XVI: È la grande questione che ogni sacerdote che è responsabile per altri si pone ogni giorno. Anche per se stesso naturalmente. È vero che nel Novecento c’era la tendenza a una devozione individualistica, per salvare soprattutto la propria anima e creare dei meriti anche calcolabili, che si potevano in certe liste anche indicare con numeri. E certamente tutto il movimento del Vaticano II ha voluto superare questo individualismo.
Io non vorrei adesso giudicare queste generazioni passate, che a modo loro hanno tuttavia cercato di servire così gli altri. Ma lì c’era il pericolo che soprattutto si volesse salvare la propria anima; a ciò seguiva un estrinsecismo della pietà che alla fine trovava la fede come un peso e non come una liberazione. E certamente è volontà fondamentale della nuova pastorale indicata dal Concilio Vaticano II di uscire da questa visione troppo ristretta del cristianesimo e scoprire che io salvo la mia anima solo donandola, come ci ha detto oggi nel Vangelo il Signore; solo liberandomi da me, uscendo da me; come Dio ha fatto nel Figlio uscito da se stesso Dio per salvare noi. E noi entriamo in questo movimento del Figlio, cerchiamo di uscire da noi stessi perché sappiamo dove arrivare. E non cadiamo nel vuoto, ma lasciamo noi stessi, abbandonandoci al Signore, uscendo, mettendoci a sua disposizione, come vuole Lui e non come pensiamo noi.
Questa è la vera obbedienza cristiana, che è libertà: non come vorrei io, con il mio progetto di vita per me, ma mettendomi a sua disposizione, perché Egli disponga di me. E mettendomi nelle sue mani sono libero. Ma è un grande salto che non è mai fatto definitivamente. Penso qui a sant’Agostino, che tante volte ci ha detto questo. Inizialmente dopo la conversione pensava di essere arrivato al vertice e di vivere nel paradiso della novità dell’essere cristiano. Poi ha scoperto che il cammino difficoltoso della vita continuava, benché da quel momento sempre nella luce di Dio, e che era necessario fare ogni giorno di nuovo questo salto da se stesso; dare questo io perché muoia e si rinnovi nel grande io di Cristo che è, in un certo modo molto vero, l’io comune di tutti noi, il nostro noi.
Ma direi che noi stessi dobbiamo proprio nella celebrazione dell’Eucaristia che è questo grande e profondo incontro con il Signore dove mi lascio cadere nelle sue mani esercitare questo passo grande. Quanto più noi stessi lo impariamo possiamo anche esprimerlo agli altri e renderlo comprensibile, accessibile ad altri. Solo andando con il Signore, abbandonandoci nella comunione della Chiesa alla sua apertura, non vivendo per me sia per una vita terrestre felice, sia solo per una beatitudine personale, ma facendomi strumento della sua pace, vivo bene e imparo questo coraggio davanti alle sfide di ogni giorno, sempre nuove e gravi, spesso quasi irrealizzabili. Mi lascio perché tu lo vuoi e sono sicuro che così vado avanti bene. Possiamo solo pregare il Signore che ci aiuti a fare questo cammino ogni giorno, per aiutare, illuminare così gli altri, motivarli perché possano essere così liberati e redenti.
(Don Paolo Tammi, parroco di San Pio X, insegnante di religione)
Desidero porgerle solo uno dei tanti ringraziamenti per la fatica e la passione con le quali ha scritto il suo libro su Gesù di Nazaret, un testo che come ella stesso ha detto non è un atto di magistero, ma frutto della sua ricerca personale del volto di Dio. Ha contribuito a riportare al centro del cristianesimo la persona di Gesù Cristo e sicuramente sta contribuendo e contribuirà a fare una paziente giustizia delle visioni parziali dell’evento cristiano, come la visione politica nella quale è cresciuta la maggior parte della mia adolescenza e dei miei coetanei, o quella moralistica, un po’ troppo insistente a parer mio nella predicazione cattolica, infine quella che ama definirsi demitizzante della figura di Gesù Cristo, come quella di certi maestri del pensiero laico che, con poca sorpresa in verità, improvvisamente si occupano oggi del Fondatore del cristianesimo e della sua vicenda umana per negarne la storicità o per attribuire la sua divinità a una fantasia della Chiesa apostolica. Lei invece non smette di insegnarci, Santità, che Gesù è veramente tutto; che di Lui, uomo e Dio, ci si può solo innamorare, il che non è proprio la stessa cosa di prendere la tessera del partito, ammesso che esista, o riempirsene la bocca solo per salvare un’identità culturale. Mi limito ad aggiungere che in un ambiente laico come la scuola, dove le motivazioni storiche e filosofiche pro o contro la religione hanno ovviamente il loro legittimo spazio, io vedo ogni giorno i ragazzi mantenere una grande distanza emotiva, mentre ho visto i ragazzi commuoversi ad Assisi, dove li ho portati qualche giorno fa, ascoltando l’appassionata testimonianza di un giovane frate minore. Le chiedo: come può la vita di un prete appassionarsi sempre più all’essenziale che è lo sposo Gesù? E ancora: da cosa si vede che un prete è innamorato di Gesù? So che Vostra Santità ha già risposto più volte, ma è certo che la risposta può aiutarci a correggerci, a riprendere speranza. Le chiedo di farlo ancora con i Suoi preti.
BENEDETTO XVI: Come posso correggere i parroci, che lavorano così bene! Possiamo solo aiutarci reciprocamente. Lei quindi conosce questo ambiente laico con distanza non solo intellettuale, ma soprattutto emotiva, dalla fede. E dobbiamo, a seconda delle circostanze, cercare il modo di creare dei ponti. Mi sembra che le situazioni siano difficili, ma Lei ha ragione. Dobbiamo sempre pensare: che cosa è l’essenziale, anche se poi può essere diverso il punto dove si può allacciare il kerigma, il contesto, il modo di fare. Ma la questione deve essere sempre: che cosa è essenziale? che cosa bisogna scoprire? che cosa vorrei dare? E qui ripeto sempre: l’essenziale è Dio. Se non parliamo di Dio, se Dio non va scoperto, restiamo sempre alle cose secondarie. Quindi mi sembrerebbe fondamentale che almeno nasca la domanda: c’è Dio? E come potrei vivere senza Dio? È Dio davvero una realtà importante per me?
Per me rimane impressionante che il Vaticano I volesse proprio allacciare questo dialogo, capire con la ragione Dio anche se nella situazione storica in cui ci troviamo abbiamo bisogno che Dio ci aiuti e purifichi la nostra ragione. Mi sembra che già si stia cercando di rispondere a questa sfida dell’ambiente laico con Dio come la questione fondamentale, e poi con Gesù Cristo, come la risposta di Dio. Naturalmente direi che ci sono i preambula fidei, che forse sono il primo passo per rendere aperto il cuore e la mente verso Dio: le virtù naturali. In questi giorni ho avuto la visita di un capo di Stato, che mi ha detto: non sono religioso, il fondamento della mia vita è l’etica aristotelica. È già una cosa molto buona, e siamo già insieme con san Tommaso, in cammino verso la sintesi di Tommaso. E quindi può essere questo un punto di aggancio: imparare e rendere comprensibile l’importanza per la convivenza umana di questa etica razionale, che poi si apre interiormente se vissuta conseguentemente alla domanda di Dio, alla responsabilità davanti a Dio.
Quindi mi sembra che, da una parte, dobbiamo avere chiaro davanti a noi che cosa è l’essenziale che vogliamo e dobbiamo trasmettere agli altri, e quali sono i preambula nelle situazioni in cui possiamo fare i primi passi: certamente proprio nell’oggi una certa prima educazione etica è un passo fondamentale. Così ha fatto anche la cristianità antica. Cipriano, per esempio, ci dice che prima la sua era una vita totalmente dissoluta; poi, vivendo nella comunità catecumenale, ha imparato un’etica fondamentale e così si è aperto la strada verso Dio. Anche sant’Ambrogio nella veglia pasquale dice: finora abbiamo parlato della morale, adesso veniamo ai misteri. Avevano fatto il cammino dei preambula fidei con un’educazione etica fondamentale, che creava la disponibilità per capire il mistero di Dio. Quindi io direi che dobbiamo forse fare un’interazione tra educazione etica oggi così importante da una parte, anche con una sua evidenza pragmatica, e nello stesso tempo non omettere la questione di Dio. E in questo interpenetrarsi di due cammini mi sembra forse che riusciamo un po’ ad aprirci a quel Dio che solo può dare la luce.
(Don Daniele Salera, vicario parrocchiale a Santa Maria Madre del Redentore a Tor Bella Monaca, insegnante di religione)
Santità, sono don Daniele Salera, sacerdote da 6 anni, vicario parrocchiale a Tor Bella Monaca ed ivi insegnante di religione. Nel leggere la Vostra lettera sul compito urgente dell’educazione, ho annotato alcuni aspetti per me significativi sui quali mi piacerebbe dialogare con Lei. Anzitutto trovo importante il Suo indirizzo alla diocesi e alla città. Questa distinzione dà ragione delle diverse identità che la compongono ed interpella, nella libertà a cui Lei, Santità fa cenno, anche i non credenti. Vorrei trasmettervi in questi pochi istanti la bellezza del lavorare nella scuola con colleghi che per motivi vari non hanno più una fede viva o non si riconoscono più nella Chiesa, eppure mi sono di esempio nella passione educativa e nel recupero di adolescenti che già hanno una vita segnata dal crimine e dal degrado. Colgo in tante persone con cui lavoro a Tor Bella Monaca una vera e propria ansia missionaria. Per strade diverse, ma convergenti, lottiamo contro quella crisi di speranza che è sempre dietro l’angolo quando ogni giorno si ha a che fare con ragazzi che sembrano interiormente morti, senza desideri per il futuro o così profondamente avvinti dal male da non riuscire a scorgere il bene che si vuole loro o le occasioni di libertà e di redenzione che comunque ci sono sul loro cammino. Di fronte ad una tale emergenza umana non c’è spazio per le divisioni, e allora spesso mi ripeto una frase di Papa Roncalli che diceva: «Cercherò sempre ciò che unisce, anziché ciò che divide». Santità, questa esperienza mi sta facendo vivere quotidianamente a contatto con ragazzi e adulti che non avrei mai incontrato concentrandomi solo sulle attività interne alla parrocchia ed osservo così che è vero: tanti educatori stanno rinunciando all’etica in nome di un’affettività che non dà certezze e crea dipendenza. Altri hanno paura di difendere le regole della convivenza civile perché pensano che esse non diano ragione dei bisogni, delle difficoltà e delle identità dei giovani. Con uno slogan, direi che a livello educativo viviamo in una cultura del «sì sempre» e «no mai». Ma è il «no» detto con amorevole passione per l’uomo e il suo futuro che spesso delimita il confine tra il bene e il male; confine che nell’età evolutiva è fondamentale per la costruzione di identità personali solide. E da una parte sono dunque convinto che di fronte all’emergenza le diversità si attenuano, e dunque, sul piano educativo possiamo veramente trovare un tavolo comune con chi in libertà non si dice propriamente credente; dall’altra, mi chiedo perché noi Chiesa che tanto abbiamo scritto, pensato e vissuto circa l’educazione come formazione al retto uso della libertà come Lei dice non riusciamo a far passare questo obiettivo educativo? Perché appariamo mediamente così poco liberati e liberanti?
BENEDETTO XVI: Grazie per questo specchio delle sue esperienze nella scuola di oggi, dei giovani di oggi, anche per queste domande autocritiche per noi stessi. In questo momento posso solo confermare che mi sembra molto importante che la Chiesa sia presente anche nella scuola, perché un’educazione che non è nello stesso tempo anche educazione con Dio e presenza di Dio, un’educazione che non trasmette i grandi valori etici che sono apparsi nella luce di Cristo, non è educazione. Non basta mai una formazione professionale senza formazione del cuore. E il cuore non può essere formato senza almeno la sfida della presenza di Dio. Sappiamo che molti giovani vivono in ambienti, in situazioni che rendono per loro inaccessibili la luce e la Parola di Dio; sono in situazioni di vita che sono una vera schiavitù, non solo esteriore, in quanto provocano una schiavitù intellettuale che oscura davvero il cuore e la mente. Cerchiamo con tutte le possibilità a disposizione della Chiesa di offrire anche a loro una possibilità di uscita. Ma, in ogni caso, facciamo che in questo ambiente variegato della scuola dove si va dai credenti fino alle situazioni più tristi sia presente la Parola di Dio. Proprio questo abbiamo detto di san Paolo, che voleva far arrivare il Vangelo a tutti. Questo imperativo del Signore il Vangelo deve essere annunciato a tutti non è un imperativo diacronico, non è un imperativo continentale, che in tutte le culture sia annunciato in prima linea; ma un imperativo interiore, nel senso di entrare nelle diverse sfumature e dimensioni di una società, per rendere più accessibile almeno un po’ della luce del Vangelo; che sia realmente annunciato a tutti il Vangelo.
E mi sembra anche un aspetto della formazione culturale oggi. Conoscere che cos’è la fede cristiana che ha formato questo continente e che è una luce per tutti i continenti. I modi in cui si può rendere presente e accessibile al massimo questa luce sono diversi e so di non avere una ricetta per questo; ma la necessità di offrirsi a questa avventura bella e difficile è realmente un elemento dell’imperativo del Vangelo stesso. Preghiamo che il Signore ci aiuti sempre più a rispondere a questo imperativo di far arrivare in tutte le dimensioni della nostra società la sua conoscenza, la conoscenza del suo volto.
(Padre Umberto Fanfarillo, parroco di Santa Dorotea in Trastevere)
Santo Padre, sono il parroco di Santa Dorotea in Trastevere, Padre Umberto Fanfarillo, francescano conventuale. Insieme con la comunità cristiana del territorio parrocchiale, mi preme segnalare una cospicua anche se non profonda presenza di altri contesti religiosi, con i quali ci confrontiamo quotidianamente nella stima reciproca, nella conoscenza e anche in una rispettosa convivenza. In questa sostanziale positività di intenti posso annoverare l’impegno dell’Accademia dei Lincei, dell’Università americana John Cabot, con oltre ottocento alunni provenienti da circa sessanta Paesi e con articolazioni religiose che vanno dai cattolici ai luterani, dagli ebrei ai musulmani. Sono proprio questi giovani che, alla morte di Giovanni Paolo II, si sono raccolti in preghiera nella nostra chiesa. Sono alcuni di essi che, frequentando i locali della parrocchia, esprimono rispetto e serenità dinanzi ai nostri simboli religiosi come il crocifisso e le immagini di Maria, dei santi e del Papa. Nel territorio della parrocchia la Casa di Peter Pan accoglie bambini malati di tumore ed è legata all’ospedale Bambin Gesù. Anche qui l’interreligiosità realizza altissimi momenti di carità e di religiosa attenzione al fratello ammalato e bisognoso. Analoga realtà e rispettoso incontro tra le ricordate espressioni religiose abbiamo nel carcere di Regina Coeli, sempre nel territorio della parrocchia. Di recente, nel clima di rispetto e di testimonianza, è stato conferito il sacramento della confermazione a due giovani anglicani diventati cattolici. Questi vivaci credo si incontrano di continuo anche nei luoghi di accoglienza che caratterizzano il territorio di Trastevere. Santo Padre, siamo tutti alla ricerca di nuovi e più equilibrati atteggiamenti di conoscenza e di rispetto. Abbiamo sempre apprezzato i suoi interventi improntati al rispetto e al dialogo nella ricerca della verità. Ci aiuti ancora con la sua parola.
BENEDETTO XVI: Grazie per questa testimonianza di una parrocchia veramente multidimensionale e multiculturale. Mi sembra che Lei abbia un po’ concretizzato quanto discusso in precedenza con il confratello indiano: questo insieme di un dialogo, di una convivenza rispettosa, rispettandoci gli uni con gli altri, accettando gli uni gli altri, come essi sono nella loro alterità, nella loro comunione. E nello stesso tempo la presenza del cristianesimo, della fede cristiana come punto di riferimento al quale tutti possono gettare lo sguardo, come un fermento che nel rispetto delle libertà tuttavia è una luce per tutti e ci accomuna proprio nel rispetto delle differenze. Speriamo che il Signore ci aiuti sempre in questo senso ad accettare l’altro nell’alterità, a rispettarlo e a rendere Cristo presente nel gesto dell’amore, che è la vera espressione della sua presenza e della sua parola. E ci aiuti così ad essere realmente ministri di Cristo e della sua salvezza per il mondo. Grazie.