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In Siria e Iraq il Califfo in difficoltà. Verso un Isis in «salsa» sciita?

A due settimane dall'avvio dell'offensiva, le forze armate irachene hanno annunciato di avere preso il controllo della zona sud di Falluja. Nel frattempo si preparano anche le offensive contro altre due roccaforti Isis in Iraq e Siria, a Mosul e Raqqa. Ma alla liberazione di queste città potrebbe seguire una sanguinosa vendetta delle milizie sciite, irachene e siriane, contro la popolazione sunnita. Il parere di Janiki Cingoli (Cipmo).

Infuriano gli scontri in Iraq e Siria dove Daesh (acronimo arabo per Stato Islamico, Isis) sembra in difficoltà. Nei giorni scorsi l’esercito iracheno ha lanciato un’offensiva per riprendere Falluja, roccaforte dell’Isis a ovest di Baghdad. Califfato sotto pressione anche in Siria dove le Forze democratiche siriane, alleanza tra le Unità curde di protezione del popolo (Ypg) e fazioni arabe e cristiane nel nord-est della Siria, hanno avviato un attacco verso Raqqa, capitale siriana dell’Isis, con il sostegno della Coalizione a guida Usa. A Fallujia combattono circa 1000 jihadisti sunniti, molti dei quali ex-baathisti che facevano parte del vecchio esercito di Saddam a fronte di circa 30mila soldati regolari iracheni, sia sunniti che sciiti, con l’appoggio delle milizie sciite (Pasdaran) iraniane, invise alla popolazione sunnita che teme rappresaglie e vendette. Analogo timore per i villaggi sunniti liberati in Siria dove agiscono le milizie sciite libanesi di Hezbollah.

Il rischio che le milizie sciite possano replicare le raccapriccianti gesta di Daesh, e sviluppare quindi un Isis «in salsa sciita» è concreto. Una conferma in questa direzione arriva da Janiki Cingoli, direttore del Cipmo (Centro italiano per la pace in Medio Oriente, www.cipmo.org). «L’odio accumulato tra le parti in lotta è alto, le famiglie colpite da Daesh sono tantissime e il rischio di vendette sul campo esiste e non può essere ignorato», afferma l’esperto che fa affidamento sulla possibilità che «la coalizione occidentale che sta sostenendo l’offensiva, e l’Iran che con le sue milizie, pasdaran e hezbollah libanesi, controlla militarmente la situazione, possano cercare di arginare l’ondata di vendette evitando il conseguente danno di immagine che ne deriverebbe». Per Cingoli non si tratta di una recrudescenza di settarismi mai sopiti, esplosi dopo la caduta di Saddam nel 2003 in Iraq: «nel 2003, in Iraq, i sunniti hanno reagito militarmente all’allora premier al Maliki, sciita, che li aveva estromessi da ogni potere, arrivando a sostenere Daesh». Quest’ultimo «è andato via via a scontrarsi con i russi che temono il contagio del Jihadismo terroristico alle loro frontiere, con gli Usa che non possono accettare che ci siano pezzi interi di Stati sotto il controllo di chi comanda attacchi sul suo territorio e in Europa, e con la stessa Ue». Non ultimo con l’Iran sciita, che dopo l’accordo sul nucleare «5+1 ha riguadagnato il suo ruolo di importante player regionale». Scontro inevitabile, spiega Cingoli: «L’Isis non è piovuto dal cielo ma è la punta di lancia, come dice l’orientalista e politologo francese Olivier Roy, del sunnismo per arginare il cosiddetto espansionismo sciita».

Saranno questioni militari e politiche, più che religiose, quelle da dirimere per evitare di cadere in una nuova voragine di vendette trasversali tra sunniti e sciiti. «Quello che si sta facendo ora in campo internazionale – dichiara il direttore del Cipmo – è la cosiddetta politica dei «due forni»; da una parte appoggiare i sunniti e il loro principale sponsor, l’Arabia Saudita, per arginare l’estremismo sciita come in Yemen, e dall’altra sostenere le forze sciite per arginare l’estremismo terroristico sunnita», come stanno facendo gli Usa che con i loro satelliti guidano le truppe sciite di Hezbollah e Pasdaran, mentre i curdi siriani in lotta contro Daesh sono supportati dai bombardamenti russi. Ma le questioni sono anche politiche e riguardano il futuro della Siria e di Assad e dell’Iraq. Qui le divergenze sono evidenti. L’obiettivo posto dai negoziati di Vienna e Ginevra è quello, per la Siria, di una «transizione cui parteciperà lo stesso regime di Assad. Resta da decidere, però, chi dovrà prendere il suo posto. L’Iran vuole che resti al potere per garantire continuità a quella mezzaluna sciita che dall’Iran passa per l’Iraq, la Siria fino al Libano. La Russia propende per un governo di transizione, che preservi le strutture del regime, e che le dia spazio di influenza nella regione dove ha basi e forti interessi strategici».

Uno schema analogo dovrebbe valere anche per l’Iraq dove il nuovo premier Haidar al Abadi «mostra un atteggiamento meno settario nel tentativo di recuperare le tribù sunnite più moderate allontanandole dall’influenza di Isis. In Iraq l’incognita è tutta nel capire quale spazio si riuscirà a garantire ai sunniti e soprattutto ai curdi. Questi, infatti, stanno gestendo la loro area con indipendenza, vendendo petrolio anche a Israele». «Una soluzione di tipo federale» potrebbe, per Cingoli, essere un eventuale sbocco. Nel medio termine «la grande questione è vedere se sarà possibile trovare un modus vivendi tra l’Iran sciita e l’Arabia saudita sunnita di impronta wahabita. Oggi i rapporti diplomatici tra i due Paesi sono interrotti. La Lega araba e la comunità internazionale – sostiene l’esperto – devono fare sforzi per trovare un punto di equilibrio senza il quale la situazione in Iraq e in Siria difficilmente si stabilizzerà». La soluzione delle questioni poste sul terreno politico, militare ed economico, tuttavia potrebbe non bastare a sconfiggere l’Isis. «La sconfitta di Daesh non coinciderà con la fine del Jihadismo terroristico. Credo – conclude Cingoli – che dovremo confrontarci con questa minaccia per non poco tempo».