Dossier

In Quaresima con San Paolo

Come ogni anno, Toscanaoggi propone ai suoi lettori durante le domeniche di Quaresima un itinerario di meditazione. In occasione dell’Anno Paolino, indetto dal Papa per il bimillenario della nascita di San Paolo, il percorso di quest’anno è incentrato intorno all’«Apostolo delle Genti». Ad illustrare, secondo alcune prospettive particolari, l’opera e la predicazione paolina è monsignor Benito Marconcini, noto biblista e docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

di Benito Marconcini

1. La libertà secondo San Paolo: diventare «nuova creatura»Paolo sperimenta la libertà incontrando Cristo che gli «appare», lo «afferra», lo «ama e per lui si consegna». Da questa esperienza attinge le risposte per risolvere i problemi delle comunità di Tessalonica, Corinto, Galazia, Roma, Filippi e scopre verità capaci di liberare l’uomo dal male per farlo  camminare in una vita nuova.

Il tema della liberazione è quasi un’esclusiva di Paolo, comparendo 24 volte nelle lettere autentiche, solo 2 volte in quelle di tradizione paolina e 12 negli altri scritti neotestamentari. I termini usati indicano sia il processo di liberazione, cioè il superamento di una situazione di schiavitù, sia il fine e la fine di questo sviluppo, cioè il godimento della libertà: il contesto aiuta a comprendere se prevale l’aspetto dinamico (liberazione) o finale (libertà).

Alla parola libertà/liberazione Paolo dà un senso diverso da quello comune che intende abbattimenti di dittature, superamento di discriminazioni, acquisizione di diritti. Queste libertà, anche se ottenute, spariscono facilmente, senza la libertà interiore, la quale attraverso Cristo rende l’uomo «nuova creatura» (2Cor 5,17). Drammatica è la situazione della persona senza Cristo, incapace di fare il bene, rappresentata nell’«io» di Rm 7. «Io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. In me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo. Se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me». Il peccato rende schiavo l’uomo (Rm 6,17.20).

È possibile ritrovare tre livelli di peccato nei diversi elenchi dell’epistolario. In superficie appaiono i sintomi del peccato, radicato nel cuore dell’uomo. Tra un elenco breve di manifestazioni qualificanti le persone (1Cor 6,9b-10: ne conta 10) e uno lungo e ampiamente spiegato (Rm 1,24-32: oltre 20 termini) riportiamo quelli che la lettera ai Galati (5,19-20) chiama «desideri o opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordie, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere».

La spinta a queste azioni deriva da un duplice sentimento e cioè il desiderio interiore di agire egoisticamente, denominabile bramosia (o epithymia: Rm 1,24) e l’atto esterno che porta a compimento quanto desiderato, identificabile con cupidigia cattiva, la voglia di possedere di più, cose o persone che siano (Rm 1,29: pleonexia kakia). Bisogna scendere più in profondità, nel cuore per trovare la radice, l’origine di ogni male, il peccato nel senso più vero chiamato comunemente amartia: in Rm 7 il termine compare 14 volte e nell’intera lettera 45 volte. Amartia è capovolgimento dell’istinto religioso fino a servirsi di Dio, anziché servirlo e orientamento di fatti e persone a proprio vantaggio. È una situazione permanente che si contrappone alla giustizia (diakiosyne), dono di Cristo. È l’amore di sé fino al disprezzo di Dio: è un egoismo totale. Il peccato è come un tumore che sgretola l’organismo spirituale e porta all’incapacità di fare il bene. «È una forza personale, ma personificata, sopraindividuale e anteriore a ogni trasgressione, a cui l’uomo è tendenzialmente asservito» (R. Penna).   

In presenza del peccato, anche la Legge (tôrah) osservata scrupolosamente non rende buono l’uomo. Essa certamente è «santa e santo, giusto e buono è il comandamento» (Rm 7,12). Dà la conoscenza del bene che, se non fatto, accresce la responsabilità dell’uomo. Anche quando le azioni appaiono buone non hanno da sé la capacità di salvare. Anzi, in presenza del peccato, possono condurre o all’esaltazione o alla depressione. La Legge comanda di fare il bene, ma non dà la forza per compierlo. In definitiva essa rende tutti colpevoli davanti a Dio: «quelli che si richiamano alle opere della Legge stanno sotto la maledizione» (Gal 3,10). La sua funzione di far conoscere il peccato contribuisce ad accrescerne la responsabilità: «la Legge sopravvenne, perché abbondasse la caduta» (Rm 5,20). La Legge è solo un pedagogo, conduce a Cristo che rende gli uomini figli di Dio mediante la fede (Gal 3,24). Anche attraverso la Legge il peccato conduce alla morte spirituale (thanatos), entrata nel mondo per invidia del diavolo (Sap 2,24). Essa ha regnato nella storia, finchè «per l’opera giusta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita» (Rm 5,18). Nasce così la vita secondo lo Spirito, oggetto del prossimo argomento.

2. La vera libertà viene dallo Spirito

Lo Spirito è il mistero nel mistero di Dio. Non ha volto ed è descritto nella Bibbia, per la sua capacità trasformante, attraverso immagini quali il vento, l’acqua, il fuoco, la potenza, la colomba.

Conosciuto dagli effetti, rende l’uomo suo tempio («naos»: 1Cor 6,19). La sua presenza nella persona rivela e qualifica la vita cristiana, distinguendola da ogni altra forma di vita religiosa o spirituale. La forte immagine secondo la quale l’uomo abitato dallo Spirito ne diventa tempio e casa, permette di individuare le quattro colonne di questa costruzione che è l’uomo nuovo.

La prima è la giustizia che senza obbligo per Dio  trasforma il peccatore in  amico. Essa è pura gratuità, misericordia (Rm 5,9), amore (5,5; 8,39), grazia (3,24; 5,2) ed è offerta a tutti gli uomini. Ciò comporta la figliolanza che secondo la concezione giuridica dell’adozione, costituisce figli (Rm 8,15) con tutti i diritti degli altri membri della famiglia e rende la persona abitazione divina, luogo sacro o tempio.

La seconda colonna dell’edificio spirituale, la speranza, considerata un tempo sorella minore della sacra triade, ha oltrepassato le altre. Essa «non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5). Fondata su Dio già definito «speranza di Israele» (Ger 14,8), questa virtù teologale (cioè che riguarda Dio) rende certi del compimento delle promesse divine, anche se la realtà attorno sembra smentire l’avveramento. Questo implica nell’oggi la certezza del superamento delle limitazioni e della trasformazione della sofferenza in gioia sulla base della morte di Cristo cambiata in vita e nel futuro la partecipazione alla sua gloria e al suo regno nella fase definitiva: ha i suoi luoghi nella preghiera, nella sofferenza e nella fiducia del superamento del giudizio finale.

La speranza trova fondamento nella fede, in quello che Dio ha detto e fatto e si configura come «risposta integrale dell’uomo a Dio che si rivela come suo salvatore e include l’accettazione del messaggio salvifico e la fiduciosa sottomissione alla sua parola» (J. Alfaro). Questa fede quale coscienza dell’impossibilità di raggiungere la salvezza da soli e certezza di riceverla come dono è un atto libero e un voler fidarsi e affidarsi a Dio e trova compimento nell’amore/agape. Questo, brillantemente espresso nell’inno di 1Cor 13, è manifestazione dello Spirito, è vincolo di unione tra Dio e l’uomo e tra gli uomini, centro della rivelazione, segno efficace della presenza di Dio nel mondo: «chi ama l’altro ha adempiuto la legge» (Rm 13,8.10). Quest’amore divino permette a Paolo di delineare la vita diretta dallo Spirito in cinque momenti. «Quelli che da sempre Dio ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo […] quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati, quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rm 8,29-30). L’azione dello Spirito che accompagna l’uomo dal momento in cui Dio lo pensa, nella fase terrena e nella gloria infonde una certezza: «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28).

Le due considerazioni fatte donano alla persona un sentire profondo (phronema: Rm 8,6.7.27) che oltrepassa la razionalità, reso dalla Bibbia Cei prima come«desideri», ora come un «tendere», da altri «pensiero»: effetti sono la vita e la pace. Questo pensiero è presente attraverso la forma verbale (phronein) che introduce l’inno centrato su Cristo che «svuotò e umiliò se stesso, assumendo una condizione di servo […] per cui Dio lo esaltò, perché ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore» (Fil 2,5-11). Lo Spirito fa sperimentare alla persona la realizzazione di sé attraverso il servizio, conducendola alla libertà (2Cor 3,17): risulta così capovolta una mentalità diffusa che spinge a dominare gli altri per riuscire nella vita.

La quarta colonna dell’edificio spirituale è la percezione interiore e sicura che tutti i doni dello Spirito costituiscono solo un pegno (arrabon: 2Cor 1,22), una primizia (aparche: Rm 8,23). La certezza che il meglio deve ancora venire assume quasi la forma di un diritto donato che troverà compimento nell’eternità. Unità e varietà dei doni trovano qui una sintesi: «il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22). La persona così costruita ha raggiunto la libertà e vive di libertà.

3. Dalla libertà alla «koinonia»

La liberazione realizzata dal dono di Gesù nel mistero pasquale e partecipata nel battesimo svuota il cuore da ogni negatività e lo riempie dello Spirito, facendo emergere una «nuova creatura» (2Cor 5,17). Questa non vive da sola la ricchezza ricevuta, è spinta ad allacciare legami, a interessarsi, a partecipare alla comunità. Essa vive la koinonia o comunione, considerata una definizione dinamica della vita cristiana. Più di altri termini, koinonia pone in evidenza l’unione verticale con Dio e orizzontale con i fratelli nelle 13 ricorrenze dell’epistolario autentico (compare 6 volte nel resto del NT).  Essa indica l’unione di mente, volontà, cuore dell’uomo. Cinque sono i testi più importanti sul duplice orientamento dell’essere con, del dare e ricevere partecipazione. «Fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro» (1Cor 1,9). La comunità di Corinto, nota  per la dissolutezza dei costumi, la litigiosità e la presenza di partiti contrapposti, è rassicurata da Paolo che la fedeltà di Dio  prevarrà alla fine su tutte le divisioni: Dio realizzerà la vocazione dei Corinti a restare uniti a Gesù, Messia (Cristo), salvatore (Gesù), risorto, Signore glorioso o Kyrios. Ancora ai Corinti Paolo, all’interno di una formula trinitaria, augura, o meglio, rende certi dell’unione allo Spirito. «La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo (sono) con tutti voi» (2Cor 13,13). La koinonia dello Spirito comporta sia l’unione realizzata dal frutto dello Spirito (cfr Gal 5,22), sia quella con la persona stessa dello Spirito. Koinonia è associata al Padre soltanto nella Prima Lettera di Giovanni (1,3), ma è equivalentemente presente quando la comunità è fonte per i credenti di ogni dono che unisce. «La chiesa è in Dio Padre» (1Ts 1,1), elargitore di «grazia e pace, misericordioso, fonte di ogni consolazione» (2Cor 1,2-3), desideroso di reciproca intimità e familiarità che autorizza i credenti a «gridare: ‘Abba! Padre!» (Rm 8,15), così come fece Gesù nel Getsemani (Mc 14,36) e per noi fa continuamente lo Spirito (Gal 4,6).

L’autentica unione al Padre, Figlio e Spirito si allarga ai fratelli. È quanto afferma il discepolo di Paolo, Luca, negli Atti degli Apostoli, specialmente nei tre sommari di vita comunitaria (At 2,42-48; 4,32-35; 5,12-16), il primo dei quali contiene la parola koinonia. «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere» (At 2,42). Qui «comunione» è chiave interpretativa di tutti gli episodi seguenti, non solo della prima parte degli Atti, dove guida è Pietro, ma anche della seconda parte, che presenta Paolo intento a fondare nuove comunità. «Comunione» infatti, assieme all’esperienza del Risorto, include l’elemento interiore, l’essere «un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32). Questa espressione racchiude il massimo grado di unione attraverso la formula greca (essere una sola anima) e quella biblica, evocativa dello šema’ (Dt 6,4) dell’amore di Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima, esteso da Gesù al prossimo (Mt 22,39): Luca qui ha «fuso totalmente l’eredità veterotestamentaria ricevuta dai LXX col patrimonio greco» (E. Haenchen).

Il passaggio dalla comunione con la Trinità all’unione con gli uomini e tra loro avviene per Paolo attraverso la presenza di Gesù Cristo nell’Eucaristia. «Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo;    tutti infatti partecipiamo all’unico pane»  (1Cor 10,16-17). La comunione reale con Gesù, efficacemente espressa come unione al sangue e al corpo di Cristo, si estende a tutti i credenti che formano il corpo totale di Cristo. Essi sono uniti non principalmente attraverso una solidarietà etnica, storica e culturale, ma per una necessaria estensione dell’unione a Gesù, presente e nascosto sotto le specie eucaristiche. È la chiesa che nasce dall’Eucarestia e vive dell’Eucarestia. «L’espressione “un solo corpo” e “un solo pane” non si riduce a una formula simbolica per tradurre in modo pregnante la comunanza di vita di quelli che condividono la commensalità… c’è una relazione strettissima tra il corpo di Cristo eucaristico e quello ecclesiale. Il primo non è solo segno, ma centro dinamico e vitale del secondo» (R. Fabris).   

Quest’ultima affermazione pone una stretta relazione con 1Cor 11,23-30 che contiene il «vangelo dell’Eucarestia», ricco di due verità. I partecipati al banchetto eucaristico diventano un unico “corpo”, sono la visibilità di quel “mistico” organismo di cui Gesù è il capo, gli uomini le membra (cfr 1Cor 12; Rm 12). Inoltre 1Cor 11,25 «questo calice è la nuova diatheke», cioè impegno solenne, nel mio sangue (cfr Lc 22,20; Ger 31,31-34) esprime  la volontà irreversibile del Padre e di Gesù di essere sempre compagnia dell’uomo: è il trionfo della divina misericordia.

4. La morale paolina: l’amore come dono

La dimensione etica della vita cristiana scaturisce dalla  persona, divenuta «nuova creatura». Per questo spesso Paolo unisce strettamente la narrazione dell’evento Cristo e l’esortazione a viverlo quotidianamente nella fedeltà alle norme, quali segni del cambiamento interiore. La complementarietà tra motivazioni e impegni pratici risalta anche dai modi dei verbi, che alternano indicativo e imperativo. Fondamento della nuova etica è il mistero pasquale partecipato all’uomo nel sacramento del battesimo che rende figli di Dio e il dono dello Spirito propulsore dell’agire morale fino al compimento della storia. «Tutti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo […] tutti quelli che sono guidati dallo spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Gal 3,27-28; Rm 8,14). «Senza il legame con il kerigma, l’etica cristiana rischia di livellarsi a semplice moralismo situazionale e senza l’etica, il kerygma del vangelo corre il pericolo di essere mutato in una forma di gnosi disincarnata: tra lo Scilla del moralismo e il Cariddi del agnosticismo transita l’attualità dell’etica paolina» (A. Pitta, Lettera ai Romani, Paoline, 494).

La parte pratica  presente in elenchi di virtù da incrementare e vizi da sradicare, trova l’esempio più completo in Rm 12. Questo capitolo da una parte, attraverso l’espressione «vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio», conclude la densa dottrina centrata sulla «giustizia» riflessa nella vita di Abramo e sull’«agape» che osa sperare perfino nella conversione di Israele, e dall’altra inizia l’esposizione di un ampio progetto di vita (Rm 13,1-15,13).

Ottimo per un esame di coscienza, Rm 12 si snoda in tre parti, paragonabili a un albero che affonda le radici nella «misericordia» presentata come «giustizia» (capp. 1-4) e «agape» (capp. 5-11) e si sviluppa nel tronco e nei rami e giunge a dare i frutti. «Vi esorto a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (12,1-2). Questa sintesi dei principi dell’agire morale o di morale generale è centrata su Dio, nominato due volte, come avveniva per il kerygma (1,16-17). Per esprimere il dono di sé a Dio, Paolo usa il linguaggio sacrificale e parla di offrire i «corpi», cioè la persona in quanto si manifesta, abolendo ogni sacrificio di animali non più gradito al Signore.

Questa novità cristiana di rivolgersi in alto ha una sua logica, acquista senso davanti a Dio. «Non offrite al peccato le vostre membra come strumenti di ingiustizia, ma offrite voi stessi a Dio come viventi, ritornati dai morti, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia» (Rm 6,13). Paolo ritorna su un pensiero precedente, parlando dei credenti come tempio (1Cor 3,16; 6,19), riallacciandosi a Gesù presentato come agnello pasquale (1Cor 5,7) e strumento di espiazione (Rm 3,25). Il dono di sé al Signore si esplica in un retto comportamento che esige di rifiutare il male presente in questo mondo, nell’ambiente cioè non ancora permeato dal vangelo e rinnovare la propria mentalità che si concretizza nel «discernere» (dokimazein). Ogni situazione racchiude un volete divino: per scoprirlo necessita un’attività mentale, una valutazione, una scelta. Anche quando la scelta di Dio è definitiva e convalidata dal tempo, il credente è chiamato ogni giorno a scegliere quel dettaglio per far crescere in sé un Cristo inedito. Tre aggettivi aiutano a fare la scelta giusta. Preferire ciò che è buono per gli altri, ciò che piace a Dio specialmente quando crea armonia e non dare occasione al diavolo di danneggiare, come avviene nella discordia e infine quanto facilita il proprio cammino verso la perfezione.

Una seconda parte (12,3-8) invita ad avere un giusto concetto di sé (ripreso al v.16) e a svolgere il compito assegnato nella comunità con semplicità, diligenza, gioia, in modo che il cammino di perfezione diventi spedito nel tendere all’unità nella diversità.

La terza parte (12,9-21) costituisce una dettagliata analisi dell’agape (v.9), nelle manifestazioni interne (vv.9-13) ed esterne alla comunità (vv.14-20) conclusa con un forte invito: «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (12,21): utile sarebbe un confronto con l’inno all’agape di 1Cor 13. Rm 12 presenta una morale obiettiva che trova il suo modello nel dire e fare di Cristo; dinamica sia per il richiamo all’attività del credente, sia per la necessità di lasciarsi guidare dallo Spirito, come detto ampiamente in Rm 8; concreta perché lascia intendere un esercizio quotidiano; comunitaria per la verifica quale emerge dalla risposta dei fratelli; missionaria, perché si configura per i non credenti come proposta senza imposizione. Una frase di S. Agostino fa emergere la diversità tra persone e comunità che si ispirano a questa morale e altre che si lasciano guidare dall’egoismo. «Gli uomini privi di speranza, quanto meno badano ai propri peccati, tanto più si occupano di quelli altrui. Infatti cercano non che cosa correggere, ma che cosa biasimare. E siccome non possono scusare se stessi, sono pronti ad accusare gli altri».

5.L’Attesa dei tempi ultimi

L’escatologia o eventi ultimi è l’orizzonte nel quale Paolo considera la vita umana dell’individuo, della comunità e del cosmo; è la dimensione del futuro in tutti gli aspetti del credere e del riflettere; colta nella speranza  è il compimento di una storia che è un fine più che una fine: essa ha trovato il vertice e un senso nuovo in Cristo Risorto. La risurrezione di Gesù Cristo, fondata su molteplici testimoni che lo hanno «visto» (cfr 1Cor 15,3-8) e riflessa in titoli, quali Cristo Signore (cfr Fil 2,11; 1Cor 16,22), Figlio di Dio (Rm 1,9) è partecipata ai credenti nel battesimo. Attraverso questo «siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinchè, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova […] anche voi consideratevi viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,4.11).

L’essere in Cristo e con Cristo  è già esperienza di risurrezione e garanzia di giungere alla risurrezione dei morti (Fil 3,10-11). Per convincere i Corinti, che la ritengono impossibile (cfr At 17,32), Paolo dà qualche spiegazione su «come risorgono i morti» e «con quale corpo verranno» (1Cor 15,35). Intanto con il termine sôma, «corpo», diverso da sárx «carne», legata alla debolezza e alla peccaminosità (cfr 1Cor 15,50), Paolo indica l’uomo intero nel suo manifestarsi. Tra il corpo terreno e quello glorificato c’è diversità e continuità, da conservare in una tensione equilibrata. Si contrappongono (cfr 1Cor 15,42-44) corruzione e incorruttibilità, umiliazione e gloria, debolezza e potenza. Con forza è affermata l’identità della persona nella trasformazione del corpo, illustrata mediante l’immagine del seme (cfr 1Cor 15,43) e fondata sulla potenza divina. L’intervento di questa dà luogo a un evento ultimo, che pone fine al tempo presente e cioè la venuta gloriosa di Gesù Cristo: il ritorno sarà diverso dalla prima comparsa nel mondo.

Il termine parousía compare 14 volte nell’epistolario paolino su un totale di 24 ricorrenze neotestamentarie. Nel primo scritto Paolo considera i tessalonicesi sua speranza, gioia, corona di gloria «davanti al Signore nostro Gesù Cristo alla sua parusia» (1Ts 2,19) e auspica che essi siano conservati irreprensibili davanti a Dio «nella venuta del Signore nostro Gesù con tutti i suoi santi» (1Ts 3,13). La speranza di incontrare Cristo rende i tessalonicesi sicuri dinanzi al giudizio finale (cfr 1Ts 1,10), riservato invece agli uccisori di Cristo (cfr 1Ts 2,16): i credenti saranno «irreprensibili per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo» (1Ts 5,23). Questa certezza risolve il problema di quei fedeli che si preoccupavano per coloro che erano già morti. Alla parusia – si chiedevano – i morti potranno godere dell’incontro con il Signore? I viventi – risponde Paolo – non avranno alcun vantaggio in quel giorno rispetto ai già defunti (cfr 1Ts 4,15). Alla venuta finale ci sarà la risurrezione di quelli che sono di Cristo (cfr 1Cor 15,23). Ambedue gli eventi, parusia e risurrezione, costituiranno il compimento (télos) della storia. Questo comporterà anche l’annientamento di ogni negatività (principato, potestà, potenza, morte) e la consegna del regno al Padre (cfr 1Cor 15,24). La parusia pertanto può essere descritta come lo svelamento definitivo di una storia salvifica del singolo, dei popoli e del mondo al momento della venuta gloriosa di Gesù Cristo. Allora avrà compimento l’intero sviluppo della storia.

È corretto allora parlare di «escatologia realizzata»? L’escatologia non è solo quella finale, ma inizia con la venuta sulla terra del Figlio di Dio che dà «pienezza» al tempo (Gal 4,4) e inaugura il regno definito «giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17). È possibile già oggi vivere la koinonia (comunione) che caratterizza l’autentica vita cristiana. Il credente partecipe «della potenza della risurrezione» (Fil 3,10) diviene  «nuova creatura» (2Cor 5,17; cfr Rm 6,4; 7,6) vivendo ogni giorno in Cristo (Fil 1,21), finchè «Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,28). È questa la «caparra» (2Cor 1,22; 5,5) e la primizia (1Cor 15,23) ricevuta dal cristiano nel tempo dell’«escatologia che si realizza» o del «già e non ancora». Questa certezza rende spedito e gioioso il cammino verso il futuro. «Niente e nessuno può togliermi l’amore di Cristo. È certezza di Paolo. Noi possiamo perderlo. Lui non ci perde mai. È questo il Patto sottoscritto con il Sangue della Croce. Un patto per sempre. Il che vuol dire che se lo perdiamo lo possiamo ritrovare. Egli viene sempre all’appuntamento. Per questo la fede diventa ogni giorno, dovunque e in ogni circostanza, speranza. Poter ricominciare senza aver mai finito di incontrarlo» (G. Pattaro).