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In classe con i nuovi mali e lo strascico dei vecchi

di Giuseppe SavagnoneLa ripresa delle lezioni in questo mese di settembre costituisce un’occasione per fare il punto sulla scuola. Una scuola che, in attesa dei decreti attuativi della legge delega ormai approvata dal Parlamento (ancora, dopo mesi, non emanati), sta soffrendo dei tagli imposti dal ministro dell’economia. Classi accorpate, docenti costretti a completare l’orario facendo ore qua e là, senza tener conto della continuità didattica, supplenze consentite solo per lunghi periodi.

Ma sarebbe ingiusto addebitare a questa politica finanziaria, di per sé discutibilissima (per altre cose i soldi si sono trovati e si trovano!), tutti i mali che affliggono il nostro sistema educativo. Sta sotto i nostri occhi un abbassamento del livello degli studi che non può essere solo effetto della mancanza di soldi, e le cui origini, del resto, sono più antiche. Per individuarle bisogna risalire all’avvento della scuola di massa, un fenomeno in sé decisamente positivo, ma che avrebbe dovuto essere gestito, dai governi degli anni cinquanta e sessanta, con una rigorosa programmazione, mantenendo fermi il principio della qualità del corpo docente e le regole della selezione mediante concorsi.

Non è stato così: la logica dell’improvvisazione ha fatto sì che il precariato prendesse piede, sostituendo alla verifica della preparazione degli insegnanti il dato di fatto della loro anzianità in servizio, e avallando, anche per il futuro, la falsa evidenza che chi, in un modo o nell’altro, si trova a insegnare, ha la competenza per farlo. L’immissione per regolare concorso – che, con tutti i suoi limiti, sarebbe stata comunque una garanzia di qualità – è diventata, così, una rarità. L’insufficienza degli stipendi ha fatto il resto, allontanando dalla prospettiva dell’insegnamento molti dei giovani più capaci e intraprendenti e producendo una femminilizzazione del corpo insegnante che, senza ombra di misoginia e dando atto del grande valore di tante docenti, è nell’insieme un fenomeno tutt’altro che positivo. Alcuni colpi – all’apparenza marginali, ma in realtà abbastanza gravi – sono stati inferti in questi ultimi anni. L’abolizione degli esami di riparazione, per esempio, ha eliminato un significativo deterrente per gli alunni meno maturi e più svogliati, che prima, come minimo, erano stimolati a impegnarsi per non avere rovinate le vacanze estive. E va nella stessa direzione la recente riforma degli esami di Stato che prevede commissioni esclusivamente interne, liberando così alunni e professori da ogni controllo esterno. In questo contesto la maggiore elasticità e ricchezza dell’offerta formativa (il Pof), che di per sé è un notevole guadagno rispetto al passato, rischia di essere vanificata da carenze culturali di base.

Eppure il problema più profondo del nostro sistema d’istruzione non è quello delle conoscenze che riesce o meno a trasmettere. Vi è, più radicale, una crisi di capacità educativa, che ha colpito la famiglia ma non risparmia certo la scuola. Si moltiplicano i corsi opzionali, gli scambi, i viaggi, ma si ha l’impressione che non passino i valori. La scuola ha moltiplicato le proposte di mezzi, ma sembra ormai incapace di additare in modo credibile dei fini. Questo nessuna riforma dall’alto può impedirlo, se non ci sarà una svolta culturale che deve certamente coinvolgere innanzi tutto i docenti e gli alunni, ma di cui tutti dobbiamo sentici responsabili. Perché la crisi della scuola è lo specchio della nostra.

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