Italia
Imu al «no profit», è tutto da rifare
Tornano le polemiche sul regime Imu per gli enti non commerciali. Ad innescarle è una sentenza del Consiglio di Stato che ha bocciato l’apposito decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze, che avrebbe dovuto mettere la parola «fine» alla procedura di infrazione aperta nell’ottobre del 2010 dall’Unione europea, su ripetuta sollecitazione dei nostri radicali. «Troveremo le soluzioni tecniche appropriate», ha subito dichiarato il ministro dell’economia, Vittorio Grilli, prendendo atto della «bocciatura» e rassicurando sulle intenzioni dell’esecutivo di «assoggettare tutti i soggetti» all’Imu. Della vicenda si era occupato personalmente il presidente Mario Monti che nel febbraio 2012 aveva individuato una soluzione percorribile e concordata con la Commissione europea per salvaguardare il vero «no profit» e far pagare l’Ici, nel frattempo diventata Imu (imposta municipale unica), a chi usa gli immobili per fini commerciali. In buona sostanza le 8 attività contemplate dalla legge istitutiva dell’Ici come esenti rimanevano tali solo se condotte «con modalità non commerciale». E per gli edifici ad uso misto, l’esenzione si sarebbe applicata alla frazione di unità nella quale si svolge l’attività di natura non commerciale. Il difficile era demandato al «regolamento attuativo» che avrebbe dovuto stabilire criteri chiari. Ed è proprio questo regolamento, tanto atteso, che adesso è stato bocciato.
Nel parere del Consiglio di Stato, sezione consultiva per gli atti normativi, si legge che «non è demandato al ministero di dare generale attuazione alla nuova disciplina dell’esenzione Imu per gli immobili degli enti non commerciali». Parte dello schema in esame «è diretto a definire i requisiti, generali e di settore, per qualificare le diverse attività come svolte con modalità non commerciali. Tale aspetto esula dalla definizione degli elementi rilevanti ai fini dell’individuazione del rapporto proporzionale in caso di utilizzazione dell’immobile mista c.d. indistinta e mira a delimitare, o comunque a dare una interpretazione, in ordine al carattere non commerciale di determinate attività». Per i giudici «l’amministrazione ha compiuto alcune scelte applicative, che non solo esulano dall’oggetto del potere regolamentare attribuito, ma che sono state effettuate in assenza di criteri o altre indicazione normative atte a specificare la natura non commerciale di una attività». Basti fare riferimento aggiungono «al criterio dell’accreditamento o convenzionamento con lo Stato per le attività assistenziali e sanitarie o ai diversi criteri stabiliti per la compatibilità del versamento di rette con la natura non commerciale dell’attività. In alcuni casi è utilizzato il criterio della gratuità o del carattere simbolico della retta (attività culturali, ricreative e sportive); in altri il criterio dell’importo non superiore alla metà di quello medio previsto per le stesse attività svolte nello stesso ambito territoriale con modalità commerciali (attività ricettiva e in parte assistenziali e sanitarie); in altri ancora il criterio della non copertura integrale del costo effettivo del servizio (attività didattiche)».
Senza entrare nel merito di questi criteri, il Consiglio di Stato ritiene che si sia «in presenza di profili, che esulano dal potere regolamentare in concreto attribuito» e che «tali profili potranno essere oggetto di un diverso tipo di intervento normativo o essere lasciati all’attuazione in sede amministrativa sulla base dei principi generali dell’ordinamento interno e di quello dell’Unione europea in tema di attività non commerciali (sia in termini generali attraverso circolari, sia con riferimento a fattispecie specifiche mediante altri strumenti, quali ad esempio le risposte all’interpello del contribuente)».
Tanto è bastato per rinfocolare le solite vecchie polemiche. Per il segretario dei socialisti (oltre che assessore al bilancio della Toscana) Riccardo Nencini, «la bocciatura del decreto… rafforza la convinzione che l’Italia continui a essere un paese a sovranità limitata. Ci sono materie sulle quali il Parlamento, qualunque sia la maggioranza di governo, non può legiferare liberamente. Dalle leggi che riguardano le libertà civili come le unioni di fatto e il fine vita, a quelle che toccano le finanze della Chiesa, come l’Imu per l’appunto che costerebbe alla Cei circa 600 milioni di euro». Da cosa Nencini desuma questa cifra non è dato saperlo. In realtà l’indagine seria sulle agevolazioni fiscali condotta dal ministero dell’economia ha quantificato tutta l’area dell’esenzione Ici (che va molto al di là dei beni di proprietà di enti ecclesiastici, comprendendo onlus, fondazioni, società sportive, patronati, ecc.) in appena 100 milioni. Ma tant’è. Quando si tratta di fa polemica contro la Chiesa socialisti, radicali ed estrema sinistra sono sempre in prima linea. Fino ad ipotizzare, come fa Nencini, che «la norma sia stata scritta tardi e male a bella posta contando proprio sulla bocciatura». Qui siamo addirittura al ridicolo. Tutto il mondo del «no profit» aspetta da tempo questo regolamento per capire con esattezza cosa sia esente e cosa no. Ulteriori ritardi creano difficoltà proprio a questi enti.
C.T