Opinioni & Commenti
Imparare a parlarsi senza chiudersi nei ghetti
Il punto essenziale è l’interpretazione del multiculturalismo. C’è un modo di concepirlo, apparentemente corretto, che lo identifica con la coesistenza pacifica e paritaria di gruppi culturali e religiosi diversi, ognuno dei quali manterrebbe immutate le proprie tradizioni e la propria identità. A tutti sarebbe chiesto il rispetto di alcune generalissime regole comuni, puramente formali e funzionali, di cui si farebbe garante uno Stato laico, in posizione di totale neutralità. Questa è la visione a cui si ispirano alcuni Paesi europei e che anche nel nostro trova numerosi sostenitori.
Dicevamo che essa si presenta, a prima vista, ineccepibile. Ma bisogna prendere coscienza delle sue logiche conseguenze. La prima sarebbe la riduzione del territorio nazionale a un puro e semplice contenitore di realtà chiuse in se stesse e sostanzialmente autoreferenziali, nonché la rinunzia, da parte del popolo che vive su questo territorio, ad un orizzonte comune di valori condivisi, che gli consenta di dare una direzione alle sue scelte di fondo. Non si tratta come sembrano credere certi commentatori «laici» soltanto di togliere il crocifisso dai locali pubblici: lo Stato neutrale dovrebbe astenersi dal privilegiare il matrimonio monogamico, dal tutelare i diritti delle donne, ecc., lasciando che ogni gruppo affronti questi temi nella propria ottica. C’è di più: un simile Stato sarebbe destinato ad essere dilaniato dai conflitti tra i diversi gruppi che, lasciati a se stessi, potenzierebbero la loro incomunicabilità e le loro spinte fondamentaliste, e infine resterebbe in mano al più aggressivo e violento.
Esiste, però, anche un altro modello, che sarebbe più corretto chiamare interculturalismo. Esso prevede che lo Stato non sia un asettico, neutro contenitore, ma, senza dismettere la propria identità, fondata sulla sua storia e la sua tradizione, ascolti, proprio a partire da essa, anche le diverse voci presenti all’interno dei suoi confini, spingendole a dialogare, a loro volta, tra di loro. Secondo questo modello le comunità culturali non verrebbero considerate come monadi chiuse e rigide, ma come espressione di punti di vista destinati a evolversi e a plasmarsi attraverso un incessante confronto reciproco, nel rispetto della comunità ospitante.
In questa prospettiva un ruolo fondamentale dovrebbe avere, evidentemente, la scuola. È nella fase della formazione che i diversi devono imparare a parlarsi senza tendere a sopraffarsi a vicenda o a barricarsi in un ghetto. Il progetto del liceo «Agnesi», al di là delle buone intenzioni di chi lo promuoveva, si ispirava al primo modello. E in un prossimo futuro ci potrebbero essere anche altre iniziative magari sfruttando il sistema degli istituti paritari (islamici, indù o cristiani, non importa) orientate nella stessa direzione. In questo momento storico è indispensabile, invece, che la scuola metta in primo piano la comunicazione tra le diversità. Nella ferma convinzione che essere diversi non esclude, anzi rende fecondo ogni vero dialogo e che, reciprocamente, confrontarsi con gli altri non significa perdere la propria identità, ma consentirle di definirsi meglio. Del resto, se è vero che pubblico è ciò che può essere visto da tutti da angolazioni anche diverse, solo così la nostra, statale o paritaria, sarà veramente scuola pubblica.