(ASCA) – La Corte di giustizia dell’Unione europea ha ‘bocciato’ la norma italiana che ha introdotto il reato di clandestinità prevedendo la reclusione per gli immigrati irregolari. La direttiva sul rimpatrio dei migranti irregolari osta ad una normativa nazionale che punisce con la reclusione il cittadino di un paese terzo in soggiorno irregolare che non si sia conformato ad un ordine di lasciare il territorio nazionale, si legge in una nota. Per questo una sanzione penale quale quella prevista dalla legislazione italiana può compromettere la realizzazione dell’obiettivo di instaurare una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio nel rispetto dei diritti fondamentali, spiega la nota della Corte di giustizia. Il giudice nazionale, incaricato di applicare le disposizioni del diritto dell’Unione e di assicurarne la piena efficacia, dovrà quindi disapplicare ogni disposizione nazionale contraria al risultato della direttiva (segnatamente, la disposizione che prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni) e tenere conto del principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite, il quale fa parte delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, spiega. La Corte Ue di Lussemburgo fa riferimento al caso di Hassen El Dridi, cittadino algerino condannato dal Tribunale di Trento ad un anno di reclusione nel 2010 per non aver rispettato l’ordine di espulsione. La direttiva rimpatri stabilisce le norme e procedure comuni con le quali s’intende attuare un’efficace politica di allontanamento e di rimpatrio delle persone, nel rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità. Gli Stati membri non possono derogare a tali norme e procedure applicando regole più severe, sottolinea. La direttiva definisce con precisione la procedura da applicare al rimpatrio dei cittadini di paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare e fissa la successione delle diverse fasi di tale procedura. La prima fase consiste nell’adozione di una decisione di rimpatrio. Nell’ambito di tale fase va accordata priorità ad una possibile partenza volontaria, per la quale all’interessato è di regola impartito un termine compreso tra sette e trenta giorni, continua. Nel caso in cui la partenza volontaria non sia avvenuta entro detto termine, la direttiva impone allora allo Stato membro di procedere all’allontanamento coattivo, prendendo le misure meno coercitive possibili, precisa ancora la Corte.