Lucca

Ilaria Russo, ricercatrice di successo in Usa: «In Italia mancano i grossi investimenti statali»

«Quando mi sono trasferita ormai sette anni fa, lavoravo per un’altra università – l’Albert Einstein College of Medicine, nel Bronx».

Qual è la tua storia? «Mi sono trasferita a Milano quando avevo venti anni, ho fatto tutto il percorso universitario lì: prima una laurea triennale in biotecnologie mediche, poi una laurea specialistica in biologia molecolare. Ho iniziato a lavorare come ricercatrice quando ero studentessa della specialistica al Mario Negri, un istituto di ricerche farmacologiche. Lì sono stata fino al 2014, mi sono prima specializzata in ricerca biomedica – una scuola di specializzazione post laurea; poi il dottorato in farmacologia. Ho vinto una borsa di studio della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e mi sono trasferita a New York. La borsa di studio era di due anni, per cui doveva essere una occasione per fare una esperienza all’estero e finire il mio dottorato. Si è trasformato in un vero lavoro, perché quello che era il precedente capo mi volle tenere – all’Albert Einstein College, ndr – e sono rimasta a lavorare come post-doc. Sono stata all’Albert Einstein da fine 2014 al 2019 e da febbraio 2019 a oggi sono alla Columbia University».  Di cosa ti occupi?«Da sempre faccio ricerca cardiovascolare. In questo momento mi sto occupando di studiare dei meccanismi patologici alla base dello sviluppo dell’insufficienza cardiaca, soprattutto del ventricolo destro. In passato mi sono occupata di patologie cardiache ischemiche. Nel corso del mio post-doc mi sono specializzata su patologie cardiache non ischemiche: ipertensione arteriosa, ipertensione polmonare e cardiomiopatia diabetica. La mia è una ricerca di base, dove si vanno a studiare le basi biologiche fondamentali della patologia di interesse. Ho un passato nella ricerca traslazionale. Quello che facevo al Mario Negri era lo studio e il test di efficacia di nuove molecole nel settore cardiovascolare».  Sarebbe riproducibile in Italia la vita che fai a New York City e il tuo lavoro? «Purtroppo in Italia si investe molto poco nella ricerca, per cui la mia risposta è no. La ricerca è un settore che richiede, al di là di menti brillanti che non mancano in Italia, delle strutture e grossi investimenti che purtroppo in Italia mancano. È un po’ come se mancasse la mentalità, da parte di chi deve fornire finanziamenti, di comprendere che investire nella ricerca è una scommessa che molto spesso ha successo. Parlo di finanziamenti statali. In Italia ci sono alcuni finanziamenti privati che funzionano abbastanza bene, soprattutto nel settore oncologico, penso a Airc e a tante altre associazioni, Telethon, ma queste belle e positive realtà italiane non bastano per poter essere competitivi a livello internazionale».  Sei contenta dei risultati ottenuti all’estero? «Sì, sono assolutamente contenta. Avevo una lista di target, mi ero data degli scopi precisi da raggiungere e li ho raggiunti. Ora sono in un momento della mia carriera in cui ho voglia di fare il salto di qualità. L’idea è quella di lasciare l’accademia e buttarmi nel privato, soprattutto biotech pharma. L’idea è di continuare a farlo all’estero, non di tornare in Italia».  Quindi non torneresti? «Non tornerei in Italia, professionalmente parlando».