Cultura & Società

Ilaria Alpi faceva sul serio col suo taccuino

Il 20 marzo di trent'anni fa veniva uccisa a Mogadiscio insieme all’operatore tv Miran Hrovatin. L’allora inviato della Nazione Maurizio Naldini ricorda il suo incontro con la giovane giornalista. La verità è stata coperta da un mare di menzogne interessate

Ilaria Alpi a Mogadiscio nel 1994 ( foto da www.ilariaalpi.it )

Per trent’anni il giornalismo delle grandi firme si era occupato di cronaca nera, poi di mafia, poi di terrorismo, di servizi segreti e depistaggi, false confessioni, omicidi, stragi che potevano riguardare anche lo Stato, insomma quegli «italici misteri» che tali furono e tali sono rimasti ancora oggi. Ma con gli anni Ottanta, le vicende di Beirut e lo sbarco dei nostri militari in Medio Oriente, per quelle che furono indicate come «missioni di pace», cambiarono la prospettiva. La redazione degli esteri divenne più importante di quella degli interni. Era finito – o così si credeva – il provincialismo che fino ad allora aveva nutrito i quotidiani. Essere pronti a partire e atterrare in pochi ore su scenari di guerra, in ogni parte del globo, diventava normale per un inviato. Dopo il Libano, ecco il Golfo Persico presidiato dalla nostra marina per evitare gli attacchi dei pasdaran iraniani. E finalmente, nei primi anni Novanta, la Somalia. Buona parte dei direttori sapevano poco o nulla di certe zone, eppure muovevano i loro cronisti per il mondo, come se in palio ci fosse il premio Pulitzer.
La prima volta che misi piede a Mogadiscio era il dicembre del ’92. Nella città distrutta, gruppi armati entravano nelle poche case rimaste in piedi per rubare i fili elettrici. Io ero arrivato su un monoelica che portava la droga da un aeroporto clandestino di Nairobi, l’aeroporto Wilson. I piloti dei Piper o dei Cessna erano sikh che vendevano direttamente il volo. Cento dollari, una cifra giusta. L’atterraggio avvenne su una pista in terra battuta a 40 chilometri dalla città. Avevo 10mila dollari nascosti dentro la cintura. Mi vennero incontro dei guerriglieri somali armati di kalashnikov. Con loro trattai per una scorta armata e per un’auto che mi portasse fino a Mogadiscio. Quando finalmente arrivai nella sede della Cooperazione e riuscii a parlare con l’Italia, da un capo redattore mi sentii chiedere: «In che albergo sei sceso a Mogadiscio?». Eravamo quattro colleghi nella stessa camera. A turno dormivamo in un letto singolo. Il bagno era lo stesso per una ventina fra giornalisti e dipendenti dell’ambasciata. Risposi al capo redattore con una frase irripetibile. Ma sia chiaro, non era solo questione di buon gusto e neppure di buon senso. L’incapacità, ai vertici, di gestire la situazione, poteva costare cara agli inviati.
Nelle settimane seguenti avrei conosciuto una ragazza che lavorava per il TG3. Di solito, nei primi anni Novanta, una giornalista non ancora trentenne poteva occuparsi di moda o al massimo di cultura. E in Somalia c’erano solo colleghe di grande esperienza. Gabriella Simoni, per esempio, che era stata in primissima fila durante la Guerra del Golfo. Oppure Giuliana Sgrena, capace di attraversare l’Afghanistan con un burqa per raccontare la condizione della donna da quelle parti. O infine, personaggi come Lilly Gruber o Carmen Lasorella per la Rai.
Quella ragazza così «fuori dal coro» si chiamava Ilaria Alpi, e piccola com’era aveva difficoltà anche a salire sui blindati. Un giorno, amichevolmente, le chiesi: «Ma come sei finita da queste parti?». E lei, sorridendo, con molta ironia: «Ero in redazione, il direttore sbraitava perché in Somalia non c’era nessuno, i capi redattori erano in fibrillazione. Uno di loro mi urlò: tu sai l’arabo vero? Sì, risposi, ma che c’entrano i somali con l’arabo? E lui: insomma, è roba di cammelli no? Due giorni dopo ero a Mogadiscio».
Ilaria faceva sul serio col suo taccuino. Sapeva, lo sapevamo tutti, che a Mogadiscio da tempo si svolgevano affari loschi. Armi per esempio, che finivano ai signori della guerra e alle loro bande criminali. Oppure rifiuti tossici coi quali si costruivano le strade. Ma pochi erano quelli che cercavano di scavare davvero in queste vicende. Preferivano raccontare gli agguati, gli attacchi come quello del Pasta Point che impegnò la Folgore, insomma descrivere la guerra. Per esempio, in quei mesi si stava per andare al voto in Sud Africa. Era vero che, tramite i nostri servizi segreti, partivano da Mogadiscio dei carichi di armi verso il Sud Africa? Ilaria cercava le prove della corruzione diffusa a tutti i livelli. Ed ecco che un giorno va a Bosaso per una delicatissima intervista, e a quanto pare sale sulle barche – bananiere? – che probabilmente servivano per i traffici illeciti. Vede, si fa vedere, fa riprendere immagini dal suo operatore Miran Hrovatin, poi torna a Mogadiscio, sicura di aver fatto un buon lavoro. E qui, ecco l’esecuzione. Corrono sul luogo del duplice delitto due colleghi, Gabriella Simoni e Giovanni Porzio. Le loro testimonianze saranno indispensabili nel tentativo di ricostruire l’accaduto.
Ci vollero anni per arrivare a un processo e a una condanna che si ebbe, con il giudizio di appello, nei confronti di Hashi Omar Assan. Ma troppe cose non tornavano. Dopo 17 anni, di nuovo un processo e l’assoluzione. Nel 2017 l’inchiesta fu archiviata. E allora chi era stato il colpevole? E soprattutto chi furono i mandanti, e per coprire quali vicende, quali colpe, quali delitti?
La Somalia cominciò a vivere nel caos quando nei primi anni Novanta si ribellò a Siad Barre, l’uomo che l’Italia aveva messo al potere. Da allora è stato un disastro, lotte continue, governi che nascevano a morivano nell’arco di qualche mese, macerie e massacri di ogni tipo. Sono dunque trent’anni da quando, il 20 marzo del 1994, Ilaria Alpi fu uccisa e la verità fu coperta da un mare di menzogne interessate. E sono oltre trent’anni che la Somalia vive nel terrore, con governi debolissimi, talvolta sostenuti dagli americani o comunque dalle truppe dell’Onu, mentre gruppi di estremisti islamici seminano terrore e morte un po’ dovunque. Dov’è la verità dunque? Io ricordo che quando uscivo dalla sede della Cooperazione una folla urlante mi aggrediva offrendomi oro, o avorio, o semplicemente lacrime e implorazioni di uomini e di donne perché li aiutassi a fuggire in Italia. Ecco, Ilaria Alpi non si limitò a raccontare quella sporca realtà, cercò di capirne le ragioni, di andare ben oltre la riuscita di un servizio TV. A Mogadiscio, in quei giorni, intere nazioni giocavano i loro destini, e lo facevano senza scrupoli, senza badare alla vita altrui. Per questo la morte di Ilaria va ben oltre la scomparsa di una giovane e perfino eroica giornalista. Abbiamo perso con lei – in questi giorni basta guardarsi intorno per capirlo – il coraggio di cercare la verità o quanto meno, la speranza di riuscire a trovarla. Ammesso che esista una verità nella tragedia.