Opinioni & Commenti
Il vuoto riempito da Jobs chiede risposte cristiane
di Riccardo Bigi
La morte di Steve Jobs, il creatore della Apple, il visionario che ha sfondato una dopo l’altra le frontiere della tecnologia informatica, ne ha messo in risalto la figura non solo di geniale inventore, ma anche di «guru», di leader spirituale a cui tanti si ispirano. «Siate affamati, siate folli» è lo slogan (da lui stesso preso in prestito, e rilanciato in un famoso discorso ai laureati di Stanford nel 2005) che moltissimi hanno ripetuto, postato, inoltrato in questi giorni. Altrettanto famose le parole che precedevano quello slogan: «Il vostro tempo è limitato. Non buttatelo vivendo la vita di qualcun altro». E ancora: «Non lasciate che il rumore delle opinioni degli altri affoghi la vostra voce interiore. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno già cosa voi volete davvero diventare. Tutto il resto è secondario».
L’originalità di Steve Jobs è proprio qui: è stata quella di mescolare tecnologia e filosofia, esaltazione dell’informatica e richiami alla «voce interiore», al cuore, all’intuizione. Non ha mai dimenticato l’«elemento umano nella macchina» tanto per citare un verso di un altro guru del nostro tempo, Jovanotti. Steve Jobs in questo senso non era solo un informatico: le sue invenzioni hanno plasmato la cultura, il modo di vivere e di pensare degli ultimi decenni. Ecco perché è interessante porsi alcuni interrogativi sui «messaggi» che ha lasciato.
Sempre nel discorso alla Stanford University, Jobs invitava a guardare al proprio passato: «unendo i puntini» della propria vita, diceva, ognuno può vedere un disegno. E questo serve per guardare con fiducia al futuro. «Dovete credere in qualcosa diceva ancora il vostro intuito, il destino, la vita, il karma ».
C’è un disegno per ogni individuo. Imac, Iphone, Ipod, Ipad: tutto ruota intorno a quell’«io» che è diventato il suo marchio di fabbrica. Ogni oggetto tecnologico diventa così un’estensione dell’individuo: non è solo uno strumento che posso usare, ma la moltiplicazione all’infinito della mia capacità di essere connesso con il mondo, con l’universo.
C’è molto buddismo, in Steve Jobs: c’è una visione dell’uomo tipica delle filosofie orientali. Il fatto che per cercare risposte ai suoi dubbi esistenziali, il genio americano si sia rivolto al lontano oriente dovrebbe farci riflettere sulla necessità, oggi, di dare risposte a questi stessi interrogativi attraverso un nuovo umanesimo cristiano. Un cristianesimo per l’uomo del nostro tempo. Che mostri come la fede in Dio, nel Dio rivelato da Gesù, non è in contrasto con quell’invito all’autoaffermazione di sé che Jobs evoca con tanta forza. Un cristianesimo che insegni che Dio non è qualcosa di cui è necessario sbarazzarsi per essere totalmente liberi nel determinare le proprie scelte. Un cristianesimo che ci ricordi anche, magari, che intorno all’io c’è anche un «noi». E che sopra l’io c’è Qualcun altro, e riconoscerlo non significa limitare la propria vita ma anzi renderla più piena. Pochi giorni fa è stata ospitata a Firenze l’urna con il corpo del Beato don Carlo Gnocchi: un altro che (pur operando, evidentemente, in campi lontanissimi da quelli di Jobs) ha unito umanesimo e scienza, mettendo le più innovative tecnologie al servizio della vita e della persona. E proprio don Gnocchi scriveva così già più di cinquant’anni fa: «Il nostro tempo ha bisogno di un Dio terrestre ed umano, da amare e da seguire appassionatamente come un capo e una dottrina nuda e essenziale e pur capace di sostenere lo slancio eroico e il bisogno di dedizione che è nel cuore dell’uomo moderno». Chissà se Steve Jobs, nelle sue lungimiranti visioni, ha mai immaginato un Dio così.