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Il Vaticano a Israele: accuse pretestuose
“L’insostenibilità della pretestuosa accusa rivolta al Papa Benedetto XVI per non aver menzionato anche l’attacco terroristico di Netanya del 12 luglio dopo la preghiera dell’Angelus di domenica 24 luglio, non può non essere apparsa evidente a chi l’ha sollevata”: è quanto afferma una dichiarazione della Sala stampa vaticana diffusa nel pomeriggio del 28 luglio, in merito alle dichiarazioni che il funzionario del ministero degli Esteri d’Israele, Barkan, ha rilasciato al Jerusalem Post del 26 luglio. Forse anche a causa della evidente insostenibilità dell’accusa “si è cercato di spostare l’attenzione su asseriti silenzi di Giovanni Paolo II circa gli attentati degli anni passati contro Israele, inventando anche che, al riguardo, il Governo d’Israele sarebbe in passato intervenuto ripetutamente presso la Santa Sede, e richiedendo che con il nuovo Pontificato la Santa Sede cambi atteggiamento”.
“Gli interventi di Giovanni Paolo II contro ogni forma di terrorismo e contro singoli atti di terrorismo nei confronti di Israele rileva la Santa Sede, allegando alla dichiarazione una nota esemplificativa – sono stati numerosi e pubblici”.
Non sempre “ad ogni attentato contro Israele è stato possibile far seguire subito una pubblica dichiarazione di condanna”, anche “per il fatto che gli attentati contro Israele talora erano seguiti da immediate reazioni israeliane non sempre compatibili con le norme del diritto internazionale”.
“Sarebbe stato pertanto impossibile – afferma la dichiarazione vaticana – condannare i primi e passare sotto silenzio le seconde”. “Così come il Governo israeliano comprensibilmente non si lascia dettare da altri ciò che esso deve dire conclude la dichiarazione diffusa dalla Sala stampa – nemmeno la Santa Sede può accettare di ricevere insegnamenti e direttive da alcun’altra autorità circa l’orientamento e i contenuti delle proprie dichiarazioni”.
“Desta penosa sorpresa che possa essere passato inosservato il fatto che, nei trascorsi 26 anni, la voce del Papa Giovanni Paolo II si sia levata tante volte con forza e passione nella drammatica situazione della Terra Santa, a condanna di ogni atto terroristico e ad invito a sentimenti di umanità e di pace.
Le affermazioni contrarie alla verità storica possono giovare solo a chi intende fomentare animosità e contrasti, e certo non servono a migliorare la situazione”: la nota della Santa Sede allegata alla dichiarazione diffusa dalla Sala stampa, cita i passaggi più significativi degli appelli di Papa Giovanni Paolo II contro la violenza in Terra Santa “a condanna delle violenze contro i civili e a favore del diritto dello Stato di Israele a vivere nella sicurezza e nella pace”.
In questo senso Egli si espresse già nel discorso al Corpo Diplomatico del 12 gennaio 1979 e in quello del 16 gennaio 1982. All’Angelus del 4 aprile 1982 espresse la propria amarezza per i “nuovi dolorosi episodi [che] si sono prodotti in Cisgiordania, con morti e feriti, mentre si è accresciuta l’ansietà e l’insicurezza della popolazione”. All’udienza generale del 15 settembre 1982 chiese che fossero abbandonate da ambo le parti le “forme di lotta armata, alcune delle quali sono state in passato particolarmente spietate e disumane”. Il 15 gennaio 1983 ammonì che le parti devono poter cessare di vivere nella paura, come anche smettere di ricorrere alla violenza, al terrorismo e alle rappresaglie.
Nella Lettera apostolica Redemptionis anno del 20 aprile 1984, scrisse, per il popolo ebraico che vive in Israele, che “dobbiamo invocare la desiderata sicurezza e la giusta tranquillità che è prerogativa di ogni nazione e condizione di vita e di progresso per ogni società”.
Tali parole furono ripetute durante l’incontro di Giovanni Paolo II con la Comunità ebraica di Miami l’11 settembre 1987 e con la Comunità ebraica di Vienna il 24 giugno 1988, dove soggiunse che “ricordarsi della Shoà significa anche opporsi ad ogni incitamento alla violenza, e proteggere e promuovere ogni tenero germoglio di libertà e pace con pazienza e costanza”.
E forse che l’affermazione del “diritto inalienabile a vivere in pace” per quanti abitano la Terra Santa, come affermò il Papa il 3 febbraio 1989 ai vescovi della Celra (Conferenza episcopale dei vescovi latini nelle Regioni arabe), non significa anche condanna di chi compie atti di violenza? E il 10 ottobre 1990, all’Udienza generale, denunciò le violenze in Gerusalemme davanti alle quali “non è possibile rimanere indifferenti e non condannare”.
Né alcuno ha dimenticato le parole dette all’Angelus del 1° gennaio 1993, quando il Pontefice affermò: “Come non rinnovare una ferma condanna nei confronti della violenza in Medio Oriente, da qualunque parte essa provenga?”. Ribadì tale posizione il 15 gennaio 1994, quando auspicò che il dialogo prevalesse sugli estremismi e, l’anno successivo, il 9 gennaio 1995, quando osservò come in Terra Santa “la pace non si scrive con lettere di sangue, ma con l’intelligenza e con il cuore”. A pochi giorni di distanza, il 22 gennaio dello stesso anno, Giovanni Paolo II espresse dolore e ferma condanna per il grave atto di terrorismo compiuto a Netanya, e fiducia che tutti vedessero il male e l’inutilità della violenza.
Turbato dalla strage del 30 luglio 1997 al mercato di Gerusalemme, il Papa fece diramare una dura nota dalla Sala Stampa, nella quale si affermò che: “La Santa Sede deplora questa violenza cieca che semina la morte indiscriminatamente. Non è con questo genere di azioni che si costruisce la pace. Il Santo Padre ha ricordato più volte che la violenza genera soltanto violenza”.
Il 13 gennaio 2001, riferendosi ai fatti di Betlemme, ricordò come “nessuno deve accettare il verificarsi di una specie di guerriglia”. L’anno successivo, il 10 gennaio, davanti al Corpo diplomatico parlò delle vittime innocenti che da una parte e dall’altra cadono ogni giorno sotto i colpi e gli spari, e della necessità di vincere insieme la battaglia della pace. Egli si riferiva al conflitto in atto in Palestina.
Nel messaggio Urbi et Orbi del 31 marzo 2002 la parola del Pontefice si levò per condannare “la tragica sequenza di atrocità e di assassinii che insanguinano la Terra Santa” e, in occasione dell’attentato suicida del 22 febbraio 2004 a Gerusalemme, Egli espresse la sua ferma deplorazione per il brutale atto, denunciando la dinamica assurda della violenza. Ancora un mese e mezzo prima di morire, Giovanni Paolo II, all’Angelus del 13 febbraio, confidò: “Continuo a pregare per la pace in Medio Oriente”.
Inoltre, il Papa Giovanni Paolo II, davanti a milioni di persone, nei messaggi Urbi et Orbi, in diversi discorsi alla Curia Romana, nelle catechesi, negli incontri con delegazioni ebraiche ha deplorato nei modi più fermi il terrorismo contro gli abitanti della Terra Santa. Anche nel ricordare gli inalienabili diritti del Popolo palestinese, il Sommo Pontefice ha ripetutamente stigmatizzato con parole inequivocabili l’inammissibilità dei metodi violenti che, mediante atti terroristici perpetrati nei confronti della popolazione civile israeliana, hanno impedito le iniziative di pace poste in atto, lungo i trascorsi cinque lustri, da sagge forze politiche sia israeliane sia palestinesi.
Il frate francescano afferma che la crisi profonda fra Israele e Santa Sede ha avuto una causa banale: una falsa crisi, fatta scoppiare in modo artigianale da alcuni funzionari di basso livello del Ministero degli Esteri, per nascondere inoperosità e ritardi nel completare l’Accordo Fondamentale fra Israele e Santa Sede.
P. Jaeger, come mai questa crisi all’improvviso?
“Anche nelle relazioni internazionali capita che grossi fatti nascono da cause molto banali: un funzionario di basso livello del Ministero israeliano degli Esteri non ha fatto i suoi compiti a casa, per prepararsi all’incontro con la delegazione della Santa Sede fissata per il 25 luglio. All’ultimo momento aveva bisogno di trovare disperatamente una scusa per cancellare l’incontro: tutto qui. La storia comincia il 23 agosto 2003, quando il Ministero degli esteri tutt’a un tratto ritira la sua delegazione dai negoziati con la Santa Sede, anche tutti gli appuntamenti futuri e si rifiuta di accordarsi su nuove date. Tutto questo è contrario alle obbligazioni prese da Israele con la firma degli Accordi Fondamentali fra Santa Sede e stato d’Israele: l’articolo n. 10 obbliga Israele a negoziare in buona fede un accordo completo sul regime fiscale da applicare alla Chiesa cattolica e sulle proprietà della Chiesa. Lo stallo in cui si era caduti ha spinto all’azione anche personalità del Congresso e la stessa Amministrazione degli Stati Uniti. In occasione della visita del Primo Ministro israeliano alla Casa Bianca il 14 aprile 2004, Sharon e il suo popolo hanno promesso di riprendere i negoziati con la Santa Sede e di sostenerli per giungere a piena conclusione. In effetti, i negoziati sono ripartiti nell’estate 2004, ma all’inizio del 2005, alcuni rappresentanti israeliani minori hanno ricominciato a creare difficoltà, rendendo sempre più difficile lo stesso incontrarsi. Ormai, la loro politica se ne hanno una è incomprensibile. È stato chiesto loro di mettere per iscritto i loro piani, per capire come rispondere e come programmare una ripresa dei negoziati. Ad un incontro del 15 giugno, essi promettono di preparare un documento scritto per l’incontro seguente, fissato al 19 luglio. Con l’avvicinarsi di questa data, essi hanno fatto capire che non avevano ancora preparato il loro compito e hanno chiesto di ritardare l’incontro al 25 luglio. Ma anche a questa data non erano pronti. Il loro timore è che questa politica di cancellare sempre tutti gli incontri, evitando i negoziati, è incompatibile con le promesse fatte a Washington e potrebbe creare difficoltà all’interno dello stesso governo israeliano. Da qui l’idea di far scoppiare in modo artigianale una falsa crisi il 25 aprile, dopo aver dato un’occhiata veloce all’Angelus di Benedetto XVI su Internet. Per sfuggire alle critiche americane e forse alle critiche dello stesso governo israeliano, dovevano fare un attacco al papa particolarmente feroce, ed è ciò che hanno fatto. Come è stato notato da molti, l’attacco era scritto in grande fretta, pieno di errori di lingua ebraica ”.
Ma perché attaccare perfino la memoria di Giovanni Paolo II?
“Questo è il punto dove le cose sono andate oltre ogni misura. Le obbligazioni del trattato sono state fatte a Giovanni Paolo II, l’amico più grande che il popolo ebraico abbia mai avuto. L’unico modo per giustificare il rifiuto era di attaccare la memoria di questo santo pontefice, che solo poco tempo fa è stato esaltato dal governo israeliano. Sono passate poche settimane da quando il governo israeliano ha diffuso un francobollo commemorativo alla memoria di Giovanni Paolo II, e ha mandato un ministro a presenziare l’inaugurazione del pontificato di Benedetto XVI. Passerà alla storia questo fatto”.
Lei dice che gli attacchi al papa sono frutto della mente di alcuni funzionari minori, contrari alla linea del Primo Ministro. É possibile?
“Certo. Il Primo ministro in questi giorni era impegnato totalmente con la sua importantissima visita al presidente francese; con le controversie e i drammi attorno al ritiro da Gaza; con le Procura generale che ha accusato suo figlio Sono certo che egli non è stato informato in nessun modo sullo stupefacente atteggiamento di alcuni funzionari di basso livello del Ministero degli Esteri. Questi hanno tentato di demolire uno degli elementi più importanti nelle relazioni internazionali dello stato d’Israele. Non so cosa potrà fare ora il Primo ministro: se prenderà l’iniziativa di riparare il danno, o se coprirà le malefatte dei funzionari. Ad ogni modo, in passato Sharon ha compreso molto bene l’importanza delle relazioni con la Chiesa cattolica. Lo si è visto dalle sue promesse a Washington sulla ripresa dei negoziati. Ancora prima, è stato lui incoraggiato dal presidente Bush e da tutti i cristiani del mondo a cancellare la decisione del suo predecessore(il Primo Ministro Barak), di far costruire una moschea proprio di fronte alla basilica dell’Annunciazione a Nazareth. Il Primo Ministro Sharon ha la possibilità di isolare il funzionario responsabile dell’offesa e riportare in alto il buon nome dello stato d’Israele”.
Quali potrebbero essere le mosse del governo per far terminare la crisi?
“Va detto anzitutto che la crisi è di proporzioni gigantesche: mai il governo di Israele (o un altro governo del mondo civile) ha lanciato accuse così crude e attacchi così violenti al capo della Chiesa cattolica, sia al pontefice regnante, sia alla memoria del suo immediato predecessore, sia in qualche modo a tutta la Chiesa e a tutti i cattolici. Ad ogni modo si potrebbe riparare senza troppe difficoltà. Penso che il capo del governo dovrebbe fare due passi contemporaneamente: 1) una presentazione di scuse piene e senza riserve a Benedetto XVI e alla memoria del santo papa Giovanni Paolo II; 2)un riconoscimento pieno e senza riserve delle obbligazioni verso la Santa Sede prese dallo stato d’Israele con la firma dell’Accordo Fondamentale del 1993. Questo implica una piena adesione ad esso, compreso un’immediata, piena ripresa dei negoziati, esplicitamente richiesti dall’articolo 10 dell’Accordo Fondamentale. Tali passi sono richiesti dal punto di vista morale e legale e hanno la possibilità di riparare all’immenso danno causato dalla superficialità di alcune persone”.
P.Jaeger, lei ha speso molti anni di lavoro nel cercare di costruire le relazioni fra Santa Sed e Israele. Come si sente in questi giorni?
“Non riesco nemmeno a dire una parola, per come mi sento. Il dolore è davvero grande”.
C’è qualcosa d’altro da imparare da questa crisi?
“Certo. Questa crisi fa emergere la difficile situazione in cui versa la Chiesa cattolica in Israele: essa non ha alcuna struttura che sia capace e desiderosa di parlare al pubblico ebraico e di prendere parte alle problematiche che si discutono nell’opinione pubblica. Nonostante lai molti volti della presenza della Chiesa in Terra Santa, la Chiesa cattolica è assente dalla società e dalla popolazione israeliana di lingua ebraica. In tutta questa settimana, mentre la propaganda dell’odio veniva diffusa dal ministero degli esteri e da quelli da esso istigati, non c’era nessuno in grado di rispondere: nessuno in Israele, in lingua ebraica, nei media israeliani, di fronte al pubblico israeliano. Il campo è completamente abbandonato. Non conosco un’altra nazione dove la Chiesa è sprovvista allo stesso modo di rappresentanza pubblica, senza nemmeno un addetto stampa, capace e desideroso di impegnarsi nel dialogo con la nazione ebraica, usando la lingua ebraica. Questo è un problema che va risolto in modo stabile, così che in tempi di crisi, sia sempre possibile trovare un portavoce della Chiesa, capace di dialogare e interloquire con i media nazionali. Si è discusso e scritto per anni sul bisogno di stabilire un soggetto ecclesiale capace di di essere la Chiesa nella nazione israeliana, proprio come la Chiesa, presente in ogni altra nazione, secondo il comando del Signore e l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Questa presenza è di fondamentale importanza anche per ogni altro aspetto della vita della Chiesa in Terra Santa. Essa è nell’interesse di tutte le altre comunità nazionali all’interno della comunità ecclesiale. Ma questo è un discorso che va affrontato più avanti in altre occasioni”. (Asianews