Cultura & Società
Il «Vangelo secondo Maria» di Erri De Luca
Per raccontare il Natale con le parole di Maria ci voleva la sensibilità di un grande scrittore, colto e semplice allo stesso tempo, come Erri De Luca. Ci volevano i suoi occhi inquieti e profondi, celesti come il velo della Madonna, il viso scavato e essenziale come il linguaggio dei suoi libri, la parlata napoletana così musicale, che ricorda la terra dove il presepe è diventato arte popolare. Il suo ultimo libro, In nome della madre (Feltrinelli, 7,50 euro) è il racconto del Natale attraverso la voce, dolce e sicura, di Maria.
Come è nato questo libro?
«Quando uno, come me, si occupa di studiare le Sacre Scritture, in questo periodo viene spesso invitato a scrivere sul Natale. Allora ho pensato che a Natale è giusto festeggiare la madre. Il Figlio avrà le sue feste, a partire dall’Epifania fino a quando, a Pasqua, gli faranno la festa, in tutti i sensi. Ma senza questa ragazzina che accoglie nel grembo le parole dell’angelo, che accetta di farsi anfora, contenitore del Verbo, non ci sarebbe nessun Natale».
Perché la scelta di Maria come voce narrante?
«Io non so scrivere in terza persona. Non avrei saputo scrivere la storia di Maria, però potevo provare ad ascoltare quello che Maria dice, anche nei suoi silenzi, e riportare la sua versione dei fatti. Questo libro doveva intitolarsi la versione di Maria, ma era un titolo brutto, suonava male: il titolo definitivo l’ha suggerito mia madre».
Un libro sul Natale, che parte con l’annunciazione. Perché?
«Solo due Vangeli raccontano la gravidanza di Maria. Per me invece la vicenda umana di Gesù inizia quella mattina di marzo: questo lo dico in base anche alla mia convinzione che la vita di una persona è già tutta intera nel momento in cui si accende nell’embrione. E poi è un episodio straordinario: nella tradizione dell’Antico Testamento, gli angeli non sono come siamo abituati a pensarli, non hanno ali, non volano: si presentano come persone dall’aspetto normale. Ho cercato di immaginare lo sconvolgimento di Miriam, di fronte a un messaggero che le portava un annuncio del genere. Non ci sono precedenti, nella Bibbia: altre volte angeli hanno annunciato gravidanze, ma sempre all’interno del matrimonio. Si sono limitati a schiudere il grembo, a porre fine a una sterilità. Qui l’annuncio stesso le mette il figlio in grembo: un figlio, non a caso, che è anche Parola».
Un annuncio che avrà, per la vita di Maria, conseguenze che lei forse non in quel momento non può immaginare…
«La scelta di Maria fu incredibilmente coraggiosa, in un tempo in cui, per una sposa promessa, mostrare una gravidanza equivaleva a confessare il proprio adulterio, il che poteva significare essere punita con la morte. Ma per Maria tutto ciò non aveva alcuna importanza: dal momento in cui l’angelo le aveva portato la notizia più grande della sua vita, era entrata in una dimensione diversa da quella in cui vivono tutti gli altri esseri umani, ponendosi al di sopra di ogni legge. E in questo territorio oltre la regola e la consuetudine riuscì a condurre anche Giuseppe, che all’inizio vacillò di fronte a una rivelazione che lo escludeva, come marito e come padre, ma che poi si dispose a seguire la sua sposa, lasciandosi pervadere dalla stessa grazia».
Perché la scelta di tenere i nomi ebraici nell’originale, e non nella versione italiana ormai consueta?
«È una scelta, se vogliamo, letteraria: a nessuno verrebbe in mente, traducendo i fratelli Karamazov, di chiamarli Demetrio Giovanni e Alessandro. Ma nei nomi ci sono anche significati che si sarebbero persi. Il saluto dell’angelo a Maria, ad esempio, shalom miriam, è bellissimo con quelle tre m in fila. In ebraico poi la m iniziale del nome si scrive con un segno che è diverso dalla m finale: è gonfia, con una apertura in basso. È un’emme incinta. E Iosef è colui che aggiunge: e infatti aggiunge la sua presenza accanto a Miriam, una presenza che salva lei e il bambino dalla lapidazione per adulterio».
Maria accoglie l’annuncio dell’angelo. Alla fine del suo libro, però, col suo bambino in braccio tenterà, protettiva come ogni madre, di tenerlo per sé…
«Gesù inizia la sua missione a trent’anni: è un caso strano, all’epoca era un’età avanzata: i profeti, prima di lui, si erano sempre mossi più giovani. Ho immaginato che questo fosse il frutto di una contrattazione notturna, la preghiera di una madre che cerca di distogliere il figlio dal destino che incombe su di lui, o almeno di ritardarlo fino ai trent’anni: poi sarà lei stessa, quando sarà il momento, a consegnare il figlio al mondo e alla sua missione».
È una madre atipica, Maria: eppure lei la presenta, in questo libro, come l’archetipo di tutte le madri…
«La gravidanza di Maria è misteriosa, d’accordo. Ma tutte le gravidanze per me sono misteriose. Sì, la tecnica è conosciuta, ma quella scintilla che fa scattare la vita, è qualcosa che possono spiegarmi in mille modi, con tutti i dettagli chimici o biologici possibili, ma resta un mistero».
Lei è grande conoscitore delle Scritture: quanto, in questo libro, proviene da questa sua conoscenza, e quanto dalla sua creatività di scrittore?
«Le notizie su Miriam vengono dai vangeli di Matteo e di Luca: sono rimasto fedele a quei racconti, a quello che c’è e anche a quello che non c’è, limitandomi a ingrandire alcuni dettagli, per rendere la figura più vicina. Nessun vangelo, ad esempio, dice che Iosef è vecchio: a me è piaciuto pensarlo giovane, bello, testardamente innamorato. Mi è piaciuto perfino pensare che Ieshu, il bambino, nelle sue fattezze umane, gli assomigliasse. I vangeli poi non parlano della presenza, nella stalla, di levatrici o di altre donne: Miriam partorisce da sola, con la perizia ricevuta dagli insegnamenti di sua madre, e dall’istinto. Questo mi è parso il prodigio più grande, una donna che da sola accoglie la vita dentro di sè, e da sola la partorisce. Altro che stelle comete, angioletti che cantano e Magi sui cammelli»
Un libro che esplora così a fondo il Natale, che riesce a dire sulla nascita di Gesù qualcosa di nuovo e di suggestivo, scritto da uno che si dice non credente: come è possibile?
«Per credere ci vuole coraggio. Io mi sono affacciato tante volte sulla soglia della fede, ma non sono mai riuscito ad attraversarla. Sono un appassionato di Sacre Scritture, che leggo tutti i giorni: tutti i giorni mi affaccio su queste persone, su questi personaggi grandiosi, su queste storie grandiose, che hanno fatto la nostra civiltà. Ma la fede è una grazia, come dicono in termine tecnico i teologi. Io non ce l’ho questa grazia».