Opinioni & Commenti
Il Tempo di Pasqua nell’epoca in cui mutano tempo e spazio
di Franco Vaccari
Si può morire di gioia. Si può morire perché il corpo non ce la fa a contenere esperienze che suscitano vertici emotivi che sintetizzano pensieri e di attese oltre ogni possibile immaginazione. Si può anche difenderci dalla gioia, per paura del dopo, quando ci lascerà col vuoto insopportabile che l’accompagna. Poter dilatare il tempo servirebbe a prolungare e a contenere la gioia. «Fermati attimo!» è infatti il desiderio onnipotente e mai sopito dell’umanità occidentale (solo?).
La domenica in Albis, seconda domenica del tempo di Pasqua, ha concluso un prolungamento del tempo fino a sette giorni, tempo che la liturgia considera un giorno solo perché giorno unico, venendo incontro al nostro bisogno. «Questo è il giorno fatto dal Signore», abbiamo ripetuto ogni giorno nella Liturgia delle Ore. Un giorno senza fine in cui la storia e l’eterno si saldano e il mistero incarnato ci consente per grazia di vivere contemporaneamente la fatica del tempo e l’immersione nell’eterno, per essere come «goccia d’acqua in un oceano di profumo». La fede canta dalla terra unendosi al coro celeste, dove l’Amore ha ormai preso il suo posto, per omnia saecula saeculorum.
La settimana che si è conclusa con la domenica in Albis è solo il preludio dell’intero tempo di Pasqua che è un messaggio grandioso sul tempo, per l’uomo del nostro tempo. Nel tempo di Pasqua, infatti, esteso dal Giovedì/Venerdì Santo a Pentecoste, la liturgia condensa una sapienza cui si può accedere anche per via di ragione e offre una comprensione intima dell’umano che può essere offerta come messaggio, proposta di confronto, anche a chi non condivide la fede, ma cerca
Così accade che, mentre ci allarmiamo per una adolescenza cronica che sfuma in un’età adulta intesa come «eterna giovinezza» che nega ogni evoluzione verso vecchiaia e morte torniamo, come bambini mai cresciuti, ad avere strumenti che ci consentono di poter avere tutto e subito, nel tempo reale dello spazio virtuale. Con un clik sulla tastiera un messaggio d’amore traversa la terra e la commozione di due amici è contemporanea, una montagna di dollari va da una banca di Singapore allo sportello sotto casa, un po’ di sesso è venduto e comprato dai partner dei due emisferi. Con una carta di credito si possono compiere anche azioni differite nel tempo: il liquido seminale di un uomo, raccolto nel 2008, feconderà una donna del 2108, un hacker programmerà una megadistruzione informatica dopo 10 anni della sua morte e consegnerà al suo testamento la drammatica notizia-beffa per i posteri angosciati. Ma questo genere di differimento è capovolto nel significato di «attesa che matura». Alla durezza della realtà fatta di spazio e tempo ritenuti insuperabili questo genere nuovo di onnipotenza alimenta il mito dell’immortalità, almeno nella progenie.
Il tempo che passa ci permette di transitare dalla fiaba alla realtà. Per qualcuno questo passaggio è stato traumatico, al punto di cercare per una vita intera di restare nella fiaba o di trovarla nuovamente. Passato dentro mille paesaggi della vita, non ne ha visto nessuno: tempo cupo di una soggettività assoluta. Ma il «tempo reale» è quello che si dispiega tra lentezza e velocità e lo «spazio reale» è quello in cui segniamo i passi uno ad uno con la suola della scarpa che combacia ogni volta con pochi centimetri di terra. Non a caso invidiamo l’aquila che svetta su tutto abbracciando nella medesima visione spazi senza fine e dettagli animati fra i cespugli.
Il tempo che fluisce col ritmo che conosciamo da millenni ci consente esperienze umane che il razionalismo appoggiato alle protesi tecnologiche minimizza o cancella. Per esempio, il fatto che i padri muoiono e solo dopo scopriamo di comprendere davvero cose che dicevano quando erano in vita. Come a dire: nel sapere si progredisce sempre e la memoria gigantesca di un computer non sa nulla della sapienza che si forma per sedimentazione e stratificazione dell’esperienza. Processo in cui non si getta nulla della vita, neppure gli scarti, la spazzatura.
La gioia della Pasqua non è un’emozione, ma un’esperienza. Parte dal Giovedì/Venerdì Santo e giunge a Pentecoste: un tempo straordinario che, finendo, introduce ancora un tempo ordinario. C’è bisogno anche di questo. Anche per gli apostoli e le donne, all’inizio, è stata inesprimibile, incontenibile. Come per ciascuno di noi. Perché la risurrezione è il punto proprio in senso geometrico attraverso cui passano tutte le altre rette, tutti gli altri raggi. E passano proprio tutti a ciascuno di noi, che stiamo attaccati a una e una sola retta. Passa l’intero. E per noi è incontenibile. Ciascuno degli apostoli e delle donne che il Risorto ha raggiunto personalmente, ha sentito subito il bisogno di comunicarlo agli altri discepoli e di ricomporre la piccola totalità perduta del Cenacolo, come spazio del contenimento e del prolungamento della gioia.
Da allora la liturgia, che ne nasce gradualmente, segna il tempo e lo spazio e permette di gustare, insieme, qualcosa di quella pienezza. Senza la liturgia rimarremmo sommersi dal dubbio sull’evento vissuto da un gruppo di uomini e donne estatici e un po’ fuori di sé, a seguito di vicende sostanzialmente oscure. Afferrati dalla liturgia nata da quell’evento, dal suo lento fluire e dal suo prolungarsi, pur rimanendo reale e non estatica, non si ha più il faticoso impegno dell’andare incontro a Cristo Signore. Accade l’opposto. È Lui che viene, seduce e afferra. Viene. Viene con la liturgia. E il tempo e lo spazio cambiano, limitatamente, per dilatare quanto più possibile le nostre misere possibilità di tenuta. Avviene come in quella piacevole esperienza della nostra infanzia, quando, sul treno in stazione, non sapevamo se eravamo noi a partire o il treno accanto un movimento in uno spazio dove cambiano i punti di riferimento, un movimento nuovo: il movimento dello spirito.
La quaresima ci ha donato con evidenza una liturgia dove si sviluppa una tematica con il carattere di cammino catecumenale, spirituale e ascetico verso la Pasqua, con fasi identificabili. Il tempo è graduale. Nel tempo pasquale, invece, predomina ormai l’idea di pienezza, meno traducibile in termini progressivi. Qui il tempo è circolare. «Continui a operare nelle nostre anime» ci ricorda l’orazione dopo la comunione del messale romano.
Le nuove spinte scientifiche e tecnologiche ci fanno comprendere più in profondità il tempo e lo spazio fisici e apriranno certamente a nuove comprensioni del tempo spirituale. E viceversa, con beneficio per l’umanità. Ma solo se sapremo coltivare l’umiltà, regina delle virtù. Lo esige l’avvicinarsi ai costitutivi dell’esistenza.
L’umiltà infatti, virtù cristiana e laica, non è rinuncia all’indagine e alla sperimentazione. Possederla è l’unico modo per accedere all’ignoto e al mistero e attingerne senza restarne bruciati. Smarrirla è come trovarci davanti ad una pietra rotolata su un sepolcro. Ostruzione insormontabile per giungere alla vita. E non solo quella eterna.