Opinioni & Commenti

Il taglio al «Fondo per l’editoria», un’altra mazzata dopo le tariffe postali

di Claudio Turrini

Sappiamo che non è un tema facile. Il vento dell’antipolitica spira forte. E tutto quello che ha a che vedere con i contributi statali puzza inevitabilmente di marcio. È così anche per il «fondo per l’editoria» regolato da una legge – la 250 – del 1990. Avrebbe dovuto garantire il pluralismo dell’informazione, schiacciato in Italia dal duopolio televisivo, dal drenaggio sistematico delle risorse pubblicitarie. E compromesso da problemi atavici, che hanno sempre collocato il nostro Paese in fondo alle classifiche di diffusione e lettura di quotidiani e settimanali. L’Italia dei mille campanili, delle tante identità locali, vive anche di questo tessuto di piccoli giornali o di periodici che non possono competere con i giganti delle concentrazioni editoriali. È una questione di cultura e anche di democrazia.

Ma già quando il «Fondo per l’editoria» fu istituito ci si fece velo di queste nobili intenzioni fondamentalmente per elargire soldi ai partiti. Si guardino i dati che pubblichiamo su questo numero (i dati ufficiali sul sito del governo). Sono i contributi erogati nel 2010 e relativi all’anno precedente. Su circa 150 milioni di euro, poco meno di nove milioni sono andati ai 136 periodici editi da Fondazioni, enti morali o cooperative che non hanno fini di lucro. Una decina a quotidiani per gli italiani all’estero o per minoranze linguistiche. Tutto il resto è destinato a giornali o periodici di cooperative di giornalisti (56 milioni) a quelli che prima o dopo si sono agganciati a qualche partito o movimento politico (40 milioni) o ai quotidiani editi da cooperative, fondazioni o enti morali (altri 42 milioni).

Che ci sia da fare pulizia in questi elenchi la Fisc, la Federazione dei settimanali cattolici, lo sostiene da sempre. Perché un conto è sostenere la democrazia informativa e un’altra cosa è sperperare denaro pubblico per foraggiare editori di giornali «fantasma». Come ha ribadito anche nel recente appello al presidente Napolitano, occorre una riforma globale all’insegna di «rigore ed E il Presidente ci aveva subito risposto (Informazione amputata, la risposta di Napolitano), promettendo di intervenire sul governo contro il rischio di «mortificazione del pluralismo dell’informazione». I 20 milioni che il Parlamento ha recuperato in extremis la scorsa settimana per il 2012 sono solo un palliativo. Anche perché l’intenzione più volte espressa dal passato governo è quella dei «tagli lineari». Il «Fondo» si riduce al 25% dell’anno precedente? Allora tutti i contributi erogati verranno tagliati nella stessa misura. Così anche le «briciole» destinate ad una settantina di settimanali diocesani – in tutto meno di 4 milioni di euro nel 2010 – quest’anno sono diventati tre e mezzo e nel 2012 saranno ridotti ad un milione. Come se di fonte allo scandalo dei falsi invalidi si dimezzasse la pensione a tutti, anche a chi invalido lo è davvero. E non si dica che mancavano le risorse. Nello stesso giorno è stata approvata la «legge mancia»: 150 milioni ai parlamentari per «regalie» nei loro collegi elettorali.

Quello del drastico taglio ai contributi è un’altra mazzata, dopo l’abolizione delle tariffe agevolate per le spedizioni e le crescenti difficoltà di consegna da parte dell’Ente Poste. In queste condizioni molte piccole testate saranno costrette a chiudere. Molte altre dovranno tagliare gli organici e ridurre la fogliazione. È quello che lucidamente si era proposto di fare il governo Berlusconi, forse per vendicarsi dell’autonomia di giudizio che le nostre testate, radicate sul territorio, hanno sempre mostrato. Non riuscendo ad assoggettarle, preferisce lasciarle morire.

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Resiste, anche se i fondi sono stati falcidiati, la legge del 1981 che prevede i contributi ai giornali, nata per aiutare le testate in difficoltà: in gioco c’era la sopravvivenza di decine di testate e migliaia di posti di lavoro tra giornalisti e poligrafici e, ancora più grave, una limitazione del diritto di tutti a essere informati. Era una legge giusta, nata per garantire il pluralismo informativo, anche se poi, con l’andare del tempo, è  cambiata quando nell’87 si sono inseriti i partiti: bastano due deputati – si disse – che affermano che il tale giornale è organo di un movimento politico per attingere alle provvidenze per l’editoria. Poi si permise ad alcuni di questi di trasformarsi in cooperative. Così uno «spiraglio» è diventato una voragine dove, di anno in anno, sono finiti centinaia di milioni di euro che lasciano le casse dello Stato sotto forma di contributi per finire nelle tasche di imprese editrici di quotidiani e periodici organi – di nome o di fatto – di movimenti e partiti politici, anche non più presenti in Parlamento. Si tratta, molto spesso, di testate che non arrivano neppure nel circuito delle edicole o che, se vi arrivano, vendono qualche decina di copie ogni giorno.

L’universo delle provvidenze all’editoria erogate nel 2010 (anno di riferimento 2009) è oggi racchiuso in otto elenchi della presidenza del Consiglio dei ministri che dimostrano quanto sia ostica e dispersiva la materia.

I giornali di partito si dividono oggi 41 milioni anche se delle formazioni politiche ai quali facevano riferimento sopravvivono solo la Lega e Rifondazione, peraltro senza rappresentanza parlamentare autonoma. Altri, tra cui An e Pci-Pds-Ds,  non esistono più. Di conseguenza, del requisito richiesto in origine per ottenere il contributo – essere «organi di partiti con rappresentanza parlamentare» – è titolare solo La Padania, (contributo di 3.896.339 €). Altre testate fanno riferimento a partiti o movimenti politici che, pur non avendo rappresentanti in Parlamento, possono continuare a ottenere il contributo grazie a un recente e curioso sub-requisito: testate che «essendo state in possesso di tali requisiti (relativi ai gruppi parlamentari di riferimento, ndr), abbiano percepito i contributi alla data del 31.12.2005». Tra queste ci sono Liberazione (3.340.443 €), Europa (3.527.208 €). Tra i giornali storici c’è L’Unità (6.377.209 €, in edicola ha diffuso 44.450 copie nel 2010, l’unica certificata tra queste testate dall’accertamento diffusione, Ads). Tra le curiosità da notare il quotidiano Democrazia cristiana, edito dalla società «Balena bianca» (contributo di 300.204 euro).

Alcuni giornali si sono trasformati in cooperativa entro il 1° dicembre 2001, tra questi Il Foglio di Giuliano Ferrara (3.441.668 €), già organo della «Convenzione per la giustizia» e  la Voce repubblicana (634.721 €).

Contributi vanno anche ai quotidiani editi da cooperative di giornalisti (26 testate) tra cui il Manifesto (3.745.345 €, come L’Avanti (2.530.640 €), al centro delle vicende di Valter Lavitola, da non confondersi con lo storico quotidiano socialista Avanti! Diciassette testate sono edite da cooperative, fondazioni o enti morali, tra le quali il  Giornale nuovo della Toscana (2.530.638,81 € di contributo) e il Nuovo corriere di Firenze (contributo di 2.530.638 €), Conquiste del lavoro, organo della Cisl (3.289.851 €) e Avvenire (5.871.082 €). Due elenchi particolari riguardano le minoranze linguistiche e quelli editi e diffusi all’estero.

Ultimo elenco, quello dei «parenti poveri», per le quali il contributo viene calcolato sulla base della tiratura (20 centesimi a copia), invece che sul bilancio. Comprende 136 testate, tra le quali Toscana oggi (contributo 146.426 €) che si dividono poco meno di 9 milioni di euro ovvero «le briciole» (il 5,7% del «Fondo»).

Questa la situazione. Ogni volta che si parla di provvidenze per l’editoria si scatena la polemica. Questa la domanda più ricorrente: è giusto o no aiutare i giornali? Secondo molti questa battaglia merita di essere condotta in difesa del pluralismo e della democrazia: è giusto che il diritto di informare appartenga solo a chi ha i soldi? Altri pensano che non sia giusto. Certo, non è giusto nemmeno il fatto che basti che un referente occupi una poltrona per poter chiedere i soldi. Cambiare la legge rientra nell’opera di pulizia e di revisione dei criteri per l’accesso al finanziamento sollecitata dai direttori di quei giornali «veri» che nei giorni scorsi si sono appellati a Napolitano. Poi, la polemica sulle copie vendute è strumentale. È evidente che giornali espressione di minoranze linguistiche o sociali non potranno mai vendere tanto, proprio perché si rivolgono a un pubblico limitato. Si tratta di giornali di idee, nati non per fare soldi ma che arricchiscono il dibattito sociale e politico. Per vivere senza il sostegno pubblico, dovrebbero modificare i contenuti che propongono adattandoli a logiche commerciali. È questo che si vuole? La massificazione dell’informazione? Anziché polemizzare sarebbe utile rivolgersi al modo scandaloso in cui viene gestito il mercato pubblicitario in Italia, la vera risorsa su cui i giornali campano.

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