Cultura & Società
Il Sessantotto. Magatti (sociologo): «Vincitore ma anche grande sconfitto»
L’anno di svolta nella storia del secondo dopoguerra; per alcuni l’anno più cruciale del Novecento. È il Sessantotto, numero assurto a simbolo del movimento che con la sua protesta contro il sistema ha assestato un violento scossone al mondo aprendo una stagione del tutto inedita. Compie 50 anni il fenomeno globale che nato a Berkley, in California, coinvolge progressivamente le università del mondo occidentale e la cui anima è riassumibile nello slogan «il est interdit d’interdire» coniato alla Sorbona di Parigi dove conosce il suo apice nel cosiddetto «maggio francese».
Apparso in Italia con le prime occupazioni universitarie tra il 1964 e il 1967 soprattutto a Trento e a Pisa, si propaga rapidamente nei principali atenei nazionali per raggiungere il culmine nel maggio del ’68 con l’occupazione pressoché totale delle nostre università. Qualche mese dopo agli studenti si affiancano gli operai con l’esplosione degli scioperi nelle fabbriche; rivendicazioni che finiranno per imboccare strade diverse. La rilettura e il bilancio, a cinquant’anni di distanza, di Mauro Magatti, sociologo dell’Università Cattolica e editorialista del Corriere della Sera.
Professore, pensando al ’68 qual è la prima cosa che le viene in mente?
«Che per alcuni aspetti ha vinto completamente e per altri è un grande sconfitto. È stato la punta dell’iceberg dell’emergenza di un’istanza di soggettività individualistica che per ragioni sociali e culturali è affiorata solo nel ’68 degli studenti, non in quello degli operai. Nasce infatti, e non a caso, tra gli studenti delle principali università del mondo occidentale, nella prima generazione dei figli del benessere, dell’accesso al consumo e alla cultura. Un’istanza che ha dilagato e ha vinto perché alla fine siamo diventati tutti “sessantottini” e il valore della soggettività personale e dell’autorealizzazione è diventato cultura di massa. Dall’altra parte è invece stato sconfitto perché, sorto come potente fermento di libertà e di innovazione sociale, culturale politica, la sua energia ha finito per produrre un modello di crescita che ha certamente lati positivi ma che ha anche generato pesanti conseguenze a livello ambientale e demografico e in termini di disuguaglianze, ed è stato, di fatto, abbondantemente «arruolato» nei meccanismi del sistema che voleva combattere».
Ha indubbiamente scardinato il principio d’autorità…
«Da questo punto di vista ha vinto perché anche chi fa discorsi “antisessantottini” in realtà ha assorbito quel modo di pensare diventato largamente dominante. Il giudizio che ne ho, come succede per i grandi fenomeni storici, è molto sfaccettato: certamente si è affermato in modo assai diverso rispetto a quello che pensavano i suoi iniziatori. Per comprenderne a fondo spirito e caratteristiche occorre sottolineare che si è prodotto nelle principali università del mondo occidentale dove ha costituito un’avanguardia, ha innescato una nuova stagione da cui non si è più tornati indietro. Critica dell’autorità e soggettivismo sono diventati criterio e modo di essere e di porsi nei rapporti sociali in tutti gli ambiti, anche in quei mondi culturali che tendenzialmente si sono opposti al ’68. Il neoliberismo dieci anni dopo ne ha «ribaltato» l’enfasi sulla libertà di scelta trasformandolo in un movimento di “destra”».
Ma quale idea di libertà ne è scaturita?
«Si è immaginato un “io” in grado di autodeterminarsi, che non deve niente a nessuno, puramente alla ricerca della propria realizzazione e quindi esposto a consegnarsi a qualsiasi offerta organizzata per soddisfare questa istanza. Secondo lei, c’è stata più ideologia o ingenuità? L’ingenuità del pensiero sessantottino è il non avere compreso che radicalizzare l’idea del soggetto finisce per indebolirlo e per smarrire la realtà inconfutabile del nostro essere nodi di relazione. La nostra è una libertà parziale, condizionata. Non può sfuggire alla questione della responsabilità perché noi esistiamo all’interno di reti di relazione da cui non possiamo prescindere. La radicale contrapposizione al principio di autorità, come se fosse possibile un mondo privo di autorità, è invece stata espressione di un ideologismo che ha messo l’idea prima della realtà».
Esattamente il contrario di ciò che ci invita a fare il Papa.
«Certo. Francesco non è ideologico, per lui la realtà è superiore all’idea. Un conto è criticare una forma concreta di autorità, ma immaginare un mondo in cui non esista autorità alcuna è frutto di un approccio ideologico e insensato al reale».
Lei sottolinea l’importanza di distinguere il movimento studentesco da quello operaio.
«Il ’68 degli studenti raccoglie istanze già espresse in modo più isolato negli anni precedenti; il movimento degli operai nasce da una matrice diversa, si pone un problema di giustizia sociale, di diritti del lavoro. I due fenomeni fanno parte di una stessa transizione ma, nonostante alcune commistioni, nascono da istanze profondamente diverse e prenderanno strade differenti».
Oggi ci sarebbe bisogno di un altro ’68? Ci potrà mai essere?
«Nella storia le cose non si ripetono mai nello stesso modo. Il contesto attuale è diverso da quello del ’68, sviluppatosi alla fine di un ciclo di lungo periodo – nato con il romanticismo e dipanatosi fino al secondo dopoguerra – e caratterizzato dal boom economico che ha reso possibili condizioni di vita storicamente riservate a ristretti gruppi d’élite. Nei sommovimenti confusi della nostra epoca – simile a quel contesto solo perché anche oggi ci troviamo alla fine di un lungo ciclo storico – emergono populismi generici che esprimono insoddisfazione, timori, domanda di nuovo».
Una risposta a queste attese da dove potrebbe venire?
«Possiamo sperare solo in una stagione nella quale si rifletta e si sappia fare un passo avanti rispetto al ’68 intorno al tema della libertà. Avremmo bisogno di un ’68 post-soggettivistico, che concepisca la libertà come relazione e responsabilità anziché come pura manifestazione dell’io».