Opinioni & Commenti

Il secondo Bush? Sarà meglio del primo

di Daniele Rocchi Secondo mandato per George W.Bush alla Casa Bianca. A decretarlo sono stati oltre 59 milioni di elettori – quasi 4 milioni in più di quelli dello sfidante democratico Kerry, che ha ammesso la sconfitta. Un plebiscito popolare che mette davanti al riconfermato presidente altri 4 anni di governo. Ma non mancano i problemi. Ne abbiamo parlato con lo storico ed esperto di politica internazionale, oltre che nostro editorialista, Romanello Cantini.

Bush è stato riconfermato alla presidenza degli Usa. Rispetto alla prima elezione cosa è cambiato?

“Questa volta è diventato presidente non per il rotto della cuffia come 4 anni fa dopo una risicatissima elezione contestata per settimane. Ora Bush ha vinto anche nel voto popolare, ha fatto cappotto conquistando anche Senato e Camera dei rappresentanti e tutto questo in una campagna durissima e con un numero record di votanti per la storia elettorale americana. Ora entra nella galleria dei pochi presidenti con due mandanti come Eisenhower, Reagan e Clinton”.

Ciò ha un significato particolare?

“Il successo di Bush non è più una raccolta di voti una tantum ma rappresenta, come nel caso dei suoi predecessori di lunga durata, un ciclo, un’era, in un certo senso una cultura del popolo americano. Questa cultura su cui si appoggia la fortuna di George W.Bush è quella dei valori tradizionali: il culto della famiglia, a partire dalla propria, il rifiuto dell’aborto, l’appello alla castità nella lotta contro l’Aids. Valori che paradossalmente sembrano dividere anche su questo piano l’America ‘religiosa’ dall’Europa ‘laica’ del Duemila”.

Ma quale America è andata a votare il 2 novembre?

“Un’America che si affida all’uomo più deciso senza domandarsi se sia anche il più saggio, che perdona anche la guerra in Iraq senza chiedersi se si tratta di una distruzione del terrorismo o di una distrazione dal terrorismo come insinuava lo sfidante Kerry”.

La conferma alla Casa Bianca non cancella la gravità di una crisi internazionale che sembra non trovare sbocchi, soprattutto in Iraq. È pensabile un nuovo approccio americano a questa situazione?

“Sarà proprio la realtà a richiamare necessariamente Bush ad un nuovo approccio al di là delle promesse tranquillizzanti. In Iraq siamo ormai di fronte a un serpente che si morde la coda: più le elezioni si allontanano e più gli americani sono odiati a vantaggio di ogni estremismo; più le elezioni si avvicinano e più il Paese rischia di piombare nella guerra civile, e in una frantumazione esplosiva per tutta l’area non appena le truppe americane si allontanano. È inevitabile cercare nuove, anche se non facili, soluzioni tornando a chiedere aiuto a tutti gli alleati e portando il maggior numero di interlocutori al prossimo vertice di Sharm el Sheikh. Lo stesso realismo si impone anche per il Medio Oriente dove l’uscita di scena di Arafat toglie il principale pretesto per rifiutare la ripresa del dialogo”.

Ci sono possibilità che questo avvenga?

“C’è una regola pressoché generale che vuole che i presidenti al secondo mandato, forse perché pensano ormai al giudizio della storia anziché ad un nuovo giudizio elettorale e perché hanno visto smentire dalla realtà i loro progetti radicali, tendano alla moderazione e alla conciliazione. Eisenhower, portato alla Casa Bianca per affrontare la fase più acuta della guerra fredda finì per incontrarsi con Krusciov a Camp David. Reagan, entrato nella stanza ovale con il proposito di armarsi fino ai denti contro ‘l’impero del male’ finì per firmare con Gorbaciov il più straordinario progetto di disarmo della storia. Così dobbiamo augurarci che accadrà anche per Bush. Non solo per ricomporre un’America mai così divisa, non solo per ricucire fra Nuovo e Vecchio Mondo, ma anche perché l’esperienza concreta del camminare in una direzione insegna che molte strade non portano in nessun posto”.

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