Vita Chiesa
Il Santo d’Assisi patrono d’Italia: scandalo, paradosso e sfida
«Perché a te? perché a te? perché a te?». Francesco è di ritorno dal boschetto presso la Porziuncola, nella piana sotto Assisi; è li che suole pregare. La fraternitas è già consolidata, è divenuta un Ordine. Non sarà mai chiaro se e fino a che punto egli abbia desiderato tale mutamento; fino a che punto gli abbia fatto piacere entrare nel glorioso nòvero dei fondatori di nuovi Ordini religiosi, che del resto il Concilio Lateranense IV aveva formalmente bloccato. Ma il suo sodalizio, fatto di mendicanti, era qualcosa di nuovo. Di sconvolgente. Francesco torna al modesto alloggio dei suoi: non vuole chiamar «suo» nemmeno quello. Non vuole aver nulla di suo. Ed ecco che uno dei fratelli più cari, frate Masseo, gli si fa incontro quasi aggressivo, quasi minaccioso: «Dico perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo nel corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile; donde dunque a te, che tutto il mondo ti venga dietro?».
Questo episodio è narrato nel X capitolo dei Fioretti: un testo difficile, tendenzioso e di solito malinteso. Una raccolta di «leggende» care e familiari a tutti noi, fin da bambini: le dolci tortorelle, le gaie rondini, il feroce lupo di Gubbio convertito alla mansuetudine. Un libro che sembra ingenuo ed innocuo. In realtà, si tratta di pagine sempre impegnate e schierate: talora tendenziose, perfino feroci. E come tali refrattarie a venir interpretate se non al rigoroso interno del loro contesto storico. Gli specialisti di cose sanfrancescane e minoritiche usano guardarlo con sospetto e utilizzarlo con grande cautela.
Eppure c’è un paradosso terribile e affascinante in quella pagina, in quel grido nel quale sembrano vibrare angoscia, scandalo, invidia misti ad amore. Qualcosa di sconcertante contemporaneità. Nel nostro mondo dell’Avere e dell’Apparire, nella società dell’Effimero e dello Spettacolo, nessuna domanda sarebbe più appropriata se rivolta a qualcuno che effonde attorno a sé un càrisma speciale e che riscuote uno straordinario successo. Uno che diventa dunque un modello: un oggetto d’emulazione ma anche d’invidia e quasi di astio, di rancore. Perché a te, perché tutto i mondo ti viene dietro, e tu affermi addirittura di non curartene, di non averlo né cercato né voluto? Otto secoli dopo, l’angosciosa domanda di frate Masseo continua a risonarci dentro. Perché a te, Francesco d’Assisi?
Mai forse nella storia della Chiesa, del cristianesimo e delle religioni – o nella storia tout court – nessuno è mai stato tanto lodato, tanto ammirato, tanto rivendicato da tutti. Un santo per tutti i gusti e per tutte le stagioni: hanno voluto presentarci volta per volta un Francesco protestante, uno socialista, uno fascista, uno «figlio dei fiori»; e ora si vanno aggiungendo alla lista un Francesco musulmano, uno buddista, uno ecologista, uno no-global, uno new age. Ma diciamo la verità: non andar bene a nessuno, è una bella condanna; andar troppo bene a tutti però è forse peggio ancora. Anche perché nessuno come Francesco e nulla come il suo messaggio appaiono – appunto al giorno d’oggi – fraintesi, distorti, dimenticati, cancellati.
Francesco, in apparenza ammirato e lodato, superstar, continua ad esser nella vera e profonda sostanza così come lo ha ritratto Dante, «dispetto a meraviglia»: straordinariamente disprezzato da tutti. Un disprezzo implicito: magari perfino inconscio. Che parte comunque da una profonda, irremissibile incomprensione. Perché è, perché resta un enigma.
Chiediamoglielo di nuovo dunque, anche noi come frate Masseo: perché a te, Giovanni di Pietro Bernardone detto Francesco? Tu non hai proprio un bel nulla che sia in; tu sei solo e sempre out per i nostri tempi, per la nostra Modernità, per il nostro Occidente. L’una e l’altro, in realtà, idolatrano esattamente quel che tu hai rifiutato: il potere, la ricchezza, il possesso, il guadagno, il piacere, la «libertà» intesa come arbitrio e come capriccio, la gloria dell’Io al posto di quella di Dio. Forse non idolatrano poi tanto la scientia, quae inflat: ma ne godono i risultati sotto forma di realizzazioni tecnologiche, e ne ostentano la vanagloria che deriva dal preteso possesso della sua conoscenza, la visibilità che le tiene dietro. Non c’è in realtà nulla che si possa immaginare come più radicalmente antifrancescano del tempo presente: e allora, perché esso continua a risonar del nome del Povero d’Assisi? Perché il suo volto, riflesso in mille che cercano di somigliare al suo, domina ancora l’immaginario, la letteratura, l’arte, i media, il cinema, le fiction televisive?
C’è chi ne ha elogiati l’originalità e l’anticonformismo: anch’esse doti che nel mondo d’oggi vengono tanto ostentate a parole quanto poco perseguite nella realtà. Si è ridotto anche lui, perfino lui, a un’icona convenzionale appiattita sulle riduttive misure della ribellione antigerarchica o sociale. Un rivoluzionarismo politically correct.
Ma ci vuol altro. Pensate alla forza del Francesco che predica nudo nella sua città natale. O che minaccia i suoi frati che non filano dritto di farli picchiare da un nerboruto confratello. O che in punto di morte, invece di pregare, pensa a mangiar dei dolci. Un Francesco che si sente tanto attratto dalle donne da doversi buttar d’inverno nella neve e rotolarvisi per calmare i morsi della carne. Un Francesco che parla col sultano e non tenta di convertirlo, si limita a testimoniare il Cristo e accetta lietamente dalle mani del «nemico della croce» il dono mondanissimo di un corno da caccia.
Ma chi è mai questo Francesco? E come possono, lui e l’Occidente moderno, intendersi? Certo, tutti gli episodi qui richiamati provengono da fonti disparate, magari molto differenti tra loro: e negli ultimi anni la critica più aggiornata e avveduta ci ha messi in guardia contro questa «storia-bricolage» che giustappone e cuce acriticamente insieme disparati episodi senza badare a una loro intima credenza, sino a creare un Francesco artificialmente messo insieme da contesti eterogenei, una specie di «mostro del dottor Frankenstein». Ma la ricerca del Francesco originale e autentico è ardua, difficile: e finisce regolarmente con lo sconfinare nell’ipotesi.
Qualcosa di plausibilmente certo, comunque, si può a suo riguardo affermare. La società del XIII secolo era dominata dal modello del Cristo Re, il Cristo trionfante della Resurrezione e dell’Ascensione, il Signore dalla Verga di Ferro della Seconda Venuta. Ma il giovane Francesco di Bernardone, che amava la poesia e le donne e che sognava di diventar cavaliere e sposare una principessa, s’innamorò perdutamente del Cristo nudo e piagato che aveva incontrato dipinto nel crocifisso dell’umile, cadente chiesetta di San Damiano. E per Lui, con Lui, nel Suo nome, imparò ad amare i poveri e i lebbrosi nei quali Lo vedeva riflesso: è egli stesso a dircelo in quel mirabile documento che è il suo Testamentum.
Grazie a lui e a Domenico di Caleruega e agli Ordini mendicanti dei Minori e dei Predicatori, che sorsero dalla loro testimonianza, la Chiesa uscì da una crisi – quella provocata dalla concorrenza con l’eresia catara – che per lei sarebbe stata forse mortale. Fu il modello di poveri volontari votati all’obbedienza a salvarla e a dimostrare che si poteva restar fedeli, insieme, alla disciplina dettata da una rigorosa tradizione e imposta da prelati che pur rimanevano ricchi e potenti e, al tempo stesso, seguire nudi il Cristo nudo. Eppure, com’è stato di recente dimostrato, furono proprio i figli del Povero d’Assisi, i minoriti, a contribuir a gettare le fondamenta della Modernità dimostrando la legittimità del credito bancario e dell’interesse; furono i seguaci di colui che aveva trattato il denaro come sterco del demonio a legittimare la nascente economia moderna dalla taccia dell’usura.
Sul piano storico del suo tempo, il Povero d’Assisi trionfò, eppure fu uno sconfitto. La sua proposta cristiana era fondata sulla rinunzia a qualunque forma di potere. Ma i tempi che gli vennero dopo furono quelli dell’affermazione della volontà di potenza dell’Europa cristiana: una strada del tutto opposta a quella del farsi simile al Cristo povero e nudo.
Oggi, questa contraddizione rimane e si è potenziata. Come possiamo continuar a venerare e a lodare Francesco in un Occidente dominato dal possesso, dal profitto, dalla Volontà di Potenza?
Chi ritiene che questa sia una delle fondamentali contraddizioni del nostro tempo e della sopravvivenza delle Chiese cristiane in una società postcristiana e, de facto, addirittura anticristana – e il gesuita argentino che divenuto papa ha scelto il nome di Francesco sembra appunto pensarla in tal modo – si trova pertanto obbligato a chiedersi se il Cristo-modello è, in quanto tale, valido ancora all’alba del III millennio, e come lo si può seguire e imitare. Si sarebbe tentati di privilegiare l’amore per il prossimo come nuovo territorio per una sequela Christi dei nostri giorni: ma è sufficiente? Francesco viveva in un mondo barbarico forse, ma ripieno di Dio: un mondo nel quale tutto si consacrava. Che cosa può dirci il suo esempio nel nostro mondo, quello di adesso, segnato dalla secolarizzazione e dalla globalizzazione?
Francesco rinunziò a se stesso per seguire il Cristo: che cosa può indicarci il suo esempio in un mondo fatto di «individui assoluti» sempre più angosciati per esser tali ma sempre meno disposti a cessar di esserlo? Francesco lodava il Signore «per sora nostra morte corporale»: ma il nostro mondo è perpetuamente assediato e angosciato dall’idea della fine fisica come Fine di Tutto; ed è questa la base della sua cupa e feroce disperazione travestita da felice godimento della vita e da universale desiderio individuale di restar per sempre giovani, sani, belli, ricchi.
Francesco d’Assisi resta uno scandalo, un paradosso, una sfida. Ridurlo a un santino devozionale è grave. Farne un rivoluzionario ridicolo è più grave ancora. Nella società dell’avere, del potere, del produrre e del consumare, la sua testimonianza tutta dalla parte dell’essere risulta radicalmente inattuale: ed equivoca dunque l’ammirazione di cui lo si circonda. Il primo passo per riconquistarlo al nostro tempo consiste disincantarne la durezza e la difficoltà del messaggio rinunziando a leggerlo sia in una dolciastra chiave convenzionale sia in una riduttiva chiave «non-conformista».
Francesco fu perfettamente padrone di sé e in piena libertà si mise al servizio del Cristo. Sapeva di essere un servo di Dio: e questa consapevolezza lo rendeva perfettamente libero. Non voleva cambiare il mondo, e nemmeno i cristiani: nella sua lettera ad quemdam ministrum, insegnava al suo interlocutore ad accettare i superiori com’erano e a non pretendere che fossero migliori. Francesco non ha mai predicato la povertà coatta e universale. La sua era solo una proposta indirizzata a chiunque volesse liberamente accettarla e solo a lui. Egli sapeva bene che la sequela Christi è una durissima e irremissibile consegna, ma soltanto per chi l’accetti volontariamente e gioiosamente; che la metanoia si può proporre solo con l’esempio, ma ch’è solo quella la via che potrà salvare il mondo.
D’altronde, questa necessità di ripensare Francesco in modo nuovo, tenendo conto anche dei progressi compiuti dalla francescanistica nell’ultimo secolo, va composta con quella di non perdere alcune delle componenti che rendono oggi così imponente la presenza storica, religiosa, spirituale e culturale del Povero d’Assisi. Nemmeno le «tradizioni popolari», comprese le più spurie, vanno disprezzate e abbandonate. Francesco e il minoritismo fanno parte d’altro canto a pieno titolo alla storia del mondo (si pensi solo alle missioni), d’Europa e d’Italia. Il recentissimo libro Francesco da Assisi. Storia, arte, mito, a cura di M. Benedetti e T. Subini (Roma, Carocci, 2019) è in questo senso prezioso in quanto ci offre un’immagine del Francesco attuale per così dire «a trecentosessanta gradi», tenendo presente anche il cinema, la letteratura per l’infanzia e la gioventù e così via.
Le vicende che hanno accompagnato per esempio la proclamazione nel 1926 di Francesco a patrono d’Italia sono ad esempio molto importanti in quanto si collegano strettamente a due altri eventi fondamentali nella storia stessa dell’identità politica culturale, religiosa e anche linguistica (il «Francesco poeta») d’Italia: le celebrazioni per il sesto centenario della morte di Dante, nel 1921, e la Conciliazione tra Chiesa romana e stato italiano nel 1929.
L’offerta dell’olio da parte delle regioni, nata in questo contesto, è fondamentale. Essa ribadisce il senso civile della memoria comunitaria nei confronti di colui che ha rinnovato la vita spirituale e devozionale d’Italia e che con il suo Cantico delle Creature si propone quasi come padre della lingua italiana: si può dire che, ben più dell’ambiguo e pletorico monumento marmoreo che, a Roma, nasconde il Campidoglio, sia il sepolcro di Francesco il vero Altare della Patria italiana. Ma quella italiana è una patria molto speciale: policentrica, fondata sulla pluralità delle tradizioni regionali e cittadine. E intrinseca alla sua tormentata storia è la contesa, la guerra tra centri urbani e tra fazioni. La predicazione della pace è un tratto caratteristico e fondamentale di Francesco: e l’olivo, come tutti sanno, è un antico e commovente simbolo di pace. Recando ogni anno la sua ampolla d’olio purissimo d’oliva al Santo d’Italia, noi rinnoviamo ogni anno il nostro ringraziamento per la sua protezione e confermiamo, anche nel suo nome, che la nostra coscienza identitaria e la nostra consapevolezza civile sono sempre vive; e che la fede cristiana è la ferma e profonda radice della nostra italianità come del nostro europeismo.