Italia

Il «salario minimo» si può fare. L’ok dei cattolici

Con il varo del Jobs Act (acronimo della sigla inglese «Jumpstart Our Business Startups Act», l’azione governativa Usa varata nel 2012 dal presidente Obama per aiuti alle piccole iniziative imprenditoriali, le cosiddette «startups») pare che presto avremo anche in Italia la novità del «salario minimo». Le notizie circolate in questi giorni parlano di una paga oraria fra i 6,5 e i 7 euro, riservata a tutti quei lavori e settori dove non vige al momento un contratto nazionale. Ci si riferisce, ad esempio, a piccoli lavori estemporanei quali gli addetti al turismo, ai villaggi vacanze, ai musei e iniziative culturali episodiche, guide turistiche, lavori occasionali quali venditori di biglietti in fiere e mostre, animatori di momenti ricreativi, nurse, cuochi e camerieri estemporanei, hostess, baristi. Una miriade di «lavoretti» a termine e comunque non continuativi dove, spesso, si cimentano i giovani disoccupati, gli studenti universitari per racimolare una «paghetta», tutti coloro (uomini e donne, ma soprattutto donne, magari casalinghe) che anche per esigenze familiari non possono svolgere un lavoro continuativo. Il calcolo di quanti potrebbero beneficiare di questo «salario minimo» non è facile. Si parla di alcune centinaia di migliaia di persone, per lo più contabilizzate dall’Istat tra i disoccupati o alla ricerca di una occupazione. Per farci un’idea dei numeri in gioco, in Italia attualmente abbiamo 22 milioni e 422 mila occupati e 3 milioni e 322 disoccupati. È soprattutto tra questi ultimi che potrebbe trovarsi la platea di quanti potranno usufruire, nelle loro future piccole attività lavorative, della suddetta paga minima inderogabile.

Così il salario minimo orario in Europa. Dobbiamo essere soddisfatti che nelle pieghe del «Jobs Act» italiano ci sia anche questo provvedimento che attende solo un decreto attuativo per diventare realtà? Sembra di sì, seppure con qualche riserva. Vediamo intanto qual è la situazione in Europa, per avere qualche elemento di paragone. Come segnala il centro di ricerca e studio «Adapt» (www.adapt.it) del prof. Michele Tiraboschi, collaboratore ed erede del giuslavorista Marco Biagi ucciso dalle Brigate Rosse, in quasi tutti i Paesi europei vige un minimo retributivo fissato per legge. Al momento gli stati privi di questo istituto sono solo sei: Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Svezia e Italia. Lussemburgo e Francia hanno i «minimi» più elevati, rispettivamente 11,10 e 9,53 euro lordi per ora lavorata. Poco sotto troviamo Olanda, Belgio e Irlanda, mentre nel Regno Unito il minimo è di 7,43 euro lordi/ora. Nella parte bassa della classifica incrociamo soglie salariali decisamente più modeste, attorno o sotto i 2 euro lordi all’ora, in Lettonia, Lituania, Romania e Bulgaria. Discorso a parte è per la Germania, ultimo paese ad aver adottato il salario minimo, che lo ha fissato a 8,50 euro lordi l’ora e sarà applicato a tutti i lavoratori con eccezioni per gli apprendisti, gli stagisti, i minori di 18 anni senza qualifica professionale e i disoccupati «di lunga durata».

Luci e ombre secondo sindacati, Mcl e Acli. Se per alcuni il salario minimo si configura come un ennesimo «attacco» al sindacato da parte del governo Renzi, per marginalizzare ulteriormente la sua azione, per altri potrà invece assicurare una protezione certa ai cosiddetti «working poor», quei lavoratori addetti a mansioni umili e saltuarie, che pur lavorando non riescono a uscire dai livelli di quasi-povertà. Lo pensa – ad esempio – Carlo Costalli, presidente nazionale del Movimento Cristiano Lavoratori (Mcl). «È un sicuro passo avanti, soprattutto per alcune categorie di lavoratori saltuari oggi per nulla o quasi considerati. Il problema è però quello di assicurare, insieme a un salario minimo, anche una qualche forma di continuità che garantisca, sul lungo termine, tutele generali presenti nei contratti collettivi più diffusi, a partire da una pensione decorosa». Secondo Costalli, «da noi permane una disoccupazione spaventosa e riuscire a portare le persone, specie i giovani che non fanno nulla, a guadagnare un salario magari modesto ma certo e trasparente, è una buona cosa. Però, ripeto, deve solo essere un trampolino di partenza, non di arrivo».

Secondo Gianni Bottalico presidente nazionale delle Acli, «in linea di principio è positivo che tra gli obiettivi del Jobs Act vi sia anche quello della definizione di un salario minimo. Questo obiettivo però va declinato con attenzione nella concreta dinamica del lavoro nel nostro Paese che è caratterizzato da una contrattazione collettiva in larga parte nazionale e da una alta incidenza del lavoro nero». Bottalico sottolinea l’esigenza di «tutelare i lavoratori con minor potere contrattuale, senza investire altri aspetti della contrattazione e senza che si producano effetti indesiderati su importanti segmenti del mercato del lavoro», tenendo presente che «il salario minimo non agisce solo direttamente sul mercato del lavoro, ma implica una sinergia con altre politiche come quelle fiscali. Ad esempio, nel caso dei servizi di cura alla persona il salario minimo, per evitare che incentivi il lavoro nero, presuppone che vi siano consistenti detrazioni fiscali per le famiglie». Il presidente delle Acli nota poi che il salario minimo «rappresenta un elemento da considerare in quel Piano nazionale contro la povertà che le Acli, all’interno della Alleanza contro la povertà in Italia’, chiedono da tempo, per gli effetti positivi che potrebbe avere per i lavoratori poveri (working poor)».