Italia

Il rompicapo d’Israele

di Riccardo Moro

Le intenzioni del governo guidato da Kadima erano chiare: lanciare una campagna su Gaza che facesse vedere il polso forte, mostrarsi capaci di fermarsi dopo aver sottomesso il nemico senza infierire, giusto alla vigilia del nuovo insediamento alla Casa Bianca, e incassare l’effetto Obama. Ma le cose non sono andate così. La campagna su Gaza è stata durissima e ha colpito anche i civili senza mettere a tacere Hamas. Con le vittime innocenti il governo ha perso consenso internazionale, nonostante molti avessero dato a Israele una sorta di tacito assenso ad agire. E con i razzi di Hamas la destra israeliana ha potuto continuare a giocare alle elezioni la carta della paura. Il risultato elettorale, così, ha prodotto un rompicapo complicatissimo.

Il paese ha preferito la destra, ma il Likud di Bibi Netanyahu, già premier di un disastroso governo che fece arretrare il processo di pace dopo l’attentato a Rabin, non ha ottenuto la maggioranza relativa. Per un seggio è stato battuto da Kadima, il partito di centro inventato da Sharon e guidato oggi da Tzipi Livni. In un sistema proporzionale puro, dove le alleanze non si stringono prima del voto, questo conta e Bibi non ha automaticamente il mandato a formare il governo. Alle spalle di Kadima e Likud, i laburisti, al minimo storico, sono stati superati dal fatto nuovo delle elezioni, il partito di Avigdor Liebermann. Seguono il partito ultraconservatore Shas e altre piccole formazioni che vanno dalla destra estrema alla rappresentanza araba. La somma dei seggi delle destre arriva a 65, ma non è facilmente componibile. Yisrael Beitenu, la forza politica creata da Liebermann, è il partito degli ebrei russi, considerati dagli ortodossi cittadini di serie B e mai del tutto riconosciuti come veri componenti della comunità sociale e religiosa di Israele. Il loro voto esprime un riscatto rancoroso e per questo pare non facile una loro alleanza di governo organica con chi sinora li ha emarginati, come gli ortodossi di Shas. Bibi Netanyahu dovrebbe usare tutte le sue doti di mediatore, peraltro scarse, per tenere in piedi una coalizione sospettosa basata su una maggioranza di soli 5 seggi. Per questo rimane più probabile la grande coalizione tra Likud e Kadima. Ma realizzarla è tutt’altro che facile. I rapporti reciproci sono difficili e le posizioni sul processo di pace opposte.

A cercare una via per sciogliere questi grovigli dando l’incarico per formare il governo, sarà l’anziano presidente della Repubblica Shimon Peres, grande laburista in passato e cofondatore di Kadima. Intanto si prende tempo, per alzare i prezzi dell’accordo. Il Likud è indeciso e Kadima è divisa. Olmert non vuole l’accordo, preferisce che vada avanti Netanyahu con un governo delle destre, contando sul suo fallimento per rientrare in gioco, anche personalmente, in nuove elezioni. La Livni vuole ripetere la performance della Merkel, forte del seggio in più, in caso contrario è tentata dall’opposizione, come Olmert. Ma non può tirare troppo la corda. Kadima è un’alleanza molto variegata che si è formata sul carisma di Sharon. Senza di lui e senza potere potrebbe sfaldarsi e diversi tra militanti e parlamentari potrebbero tornare nel Likud, attratti da qualche incarico di sottogoverno. L’ipotesi più percorribile sembra quella di un’alleanza Kadima Likud con una rotazione nel ruolo di primo ministro, ma passare dalle ipotesi ai fatti in politica è sempre piuttosto articolato.Nessuno può dire ora con certezza che cosa accadrà. Né se su questo equilibrio difficilissimo si possa influire. Guardando all’esterno del paese, alla comunità della diaspora che partecipa al dibattito nazionale, un elemento nuovo è lo spostamento a sinistra della lobby ebraica statunitense, quella da cui arrivano i principali finanziamenti per i partiti storici. I giovani, in particolare, sono esplicitamente con Obama e questo potrebbe influenzare gli equilibri politici di Israele, sia nella formazione del governo sia nelle prossime espressioni elettorali. Ma anche in questo caso è difficile fare previsioni.

Ciò che più preoccupa di questa situazione è l’impatto sul processo di pace. Libermann ha già parlato di rafforzare gli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi. Netanyahu proporrà due politiche alternative a seconda degli alleati che sceglierà. La Livni, nata politicamente nel Likud, oggi sostiene convinta il processo di pace, forse più per ragioni pragmatiche che per convinzione etica. Allo scoppio della crisi a Gaza avevamo scritto che il gesto forte che auspicavamo da lei era l’interruzione del Muro. Vorrà compierlo se riceverà l’incarico di formare il governo? E sarà aiutata dalla leadership palestinesi? Il muro è costruito con cemento venduto da imprese palestinesi e lo sgomento per la sua esistenza attira finanziamenti internazionali nei Territori e all’Autorità palestinese. Il rompicapo della Terra Santa ha grovigli dappertutto