Cultura & Società
Il romanzo graffito dell’ex psichiatrico di Volterra
di Riccardo Gatteschi
Nei decenni a cavallo fra Otto e Novecento nasceva a Volterra uno degli ospedali psichiatrici più grandi della Toscana, forse d’Italia: nel periodo della sua maggiore estensione gli Anni ’40 del secolo scorso arrivò a ospitare oltre quattromila pazienti. Con i suoi padiglioni immersi nel bosco e circondati da dieci ettari di terreno agricolo, aveva occupato quasi per intero la collina di San Giacomo, appena a oriente e quasi alla stessa altitudine della «città del vento e del macigno». Fra i vari edifici, quello che si era maggiormente sviluppato era il cosiddetto «frenocomio», i cui reparti occupavano la parte più alta della collina.
Attualmente il grande complesso appare in quasi totale abbandono solo tre reparti sono funzionanti e crea un senso di sgomento la vista di edifici, anche di notevole pregio, ormai invasi da rampicanti, con i tetti crollati, porte e finestre divelte, gli intonaci scrostati e cadenti.
Il reparto «Ferri», il fabbricato più alto dell’intero complesso e quello forse più pregevole dal punto di vista architettonico, versa nella medesima disperata condizione e solo un miracolo potrebbe salvarlo dal suo annientamento. Un mezzo miracolo è già in atto, se si pensa che è ancora possibile decifrare una delle opere più eccezionali forse unica nel suo genere che ci sia dato vedere in quell’ambiente che evoca tanta infelicità, tanto malessere, tanto dolore. Si tratta di un graffito che occupa quattro pareti esterne per una lunghezza totale di centottanta metri e un’altezza media di centoventi centimetri.
A tracciarlo, giorno dopo giorno, per i dodici anni della sua permanenza in quell’ Istituto, è stato un ricoverato romano, ospite del «Ferri» fra il 1961 e il 1973. Oreste Ferdinando Nannetti (ma lui aveva scelto, come pseudonimo, le sue iniziali «N.O.F.4», era nato a Roma nel 1927 e subito era stato abbandonato dalla madre, mentre del padre niente è dato sapere. Entra neonato in un istituto di assistenza e, dopo complessi e tormentati percorsi esistenziali, ne uscirà solo con la morte. Nel 1937 è ospite di un istituto per minorati psichici dal quale sarà dimesso, qualche anno più tardi, perché gli viene diagnosticata una malattia alla colonna vertebrale. Poco dopo è tratto in arresto per un reato del quale non si conoscono i particolari; è comunque accusato di «resistenza a pubblico ufficiale» e per lui viene richiesta la perizia psichiatrica. Finisce così nella sezione giudiziaria dell’ospedale psichiatrico di Volterra. Nel 1961 viene trasferito nella sezione civile il reparto «Ferri» e da quel momento inizia la sua straordinaria avventura di autore di graffiti. Usando principalmente le fibbie del panciotto che costituiva parte dell’uniforme di internato, prende a incidere l’intonaco di una parete esterna del reparto che lo ospita. È, il suo, un impegno costante, durante l’unica ora d’aria giornaliera che era concessa ai pazienti. Ogni volta inizia tracciando un triangolo o un rettangolo e all’interno dà vita alla sua quotidiana porzione di creatività.
Sono frasi intercalate da immagini di volti, fiori, figure geometriche ora quasi lucide e presenti nel tempo storico: « la guerra civile divampa nell’anni quaranta in tutta europa » alternate a pensieri privi di ogni apparente filo logico: « linea curva coscia caviglia Corazzi sorellastra nana .».
Che cosa racconta Nannetti in questo oceanico dispiegamento di segni grafici (ora parzialmente spariti per il progressivo sgretolarsi dell’intonaco)? Lo psichiatra Giuliano Scabia pone una serie di ipotesi: l’urgenza dell’autore a scrivere può essere attribuita a una sorta di desiderio di fermare il «suo» mondo; oppure un segno a cui affidare le speranza d’immortalità; oppure, ancora, un atto sacro, un tentativo della mente rivolto, come il cammino delle formiche, a un avanti noto e sconosciuto .
Ma la creatività di Nannetti non si esaurisce qui: una volta tornato libero, nel 1973, ma ugualmente ospite di una istituzione filantropica all’interno del complesso ospedaliero volterrano, torna ogni giorno al vecchio reparto e riprende a incidere i suoi pensieri e le sue riflessioni. Stavolta lo esegue sulla balaustra che circonda l’edificio, per una lunghezza di centosei metri e una larghezza di ventidue centimetri (quest’opera è oggi quasi del tutto scomparsa). Poi ci sono le cartoline; decine e decine di biglietti postali fitti di parole, con indirizzo e affrancatura ma mai spedite.
Quando, superati i sessant’anni, usciva più raramente dalla sua cameretta, gli vennero dati fogli e penne biro con i quali continuò infaticabilmente il suo lavoro. Alla morte, avvenuta nel gennaio del 1994, sul tavolo e nello stipetto si ammassavano 1600 fogli riempiti con i suoi sogni che avevano preso la forma di segni grafici. Tutta questa messe di lavoro creativo, cos’altro è se non il grande romanzo di una vita? Qualcuno l’ha definito l’accorata confessione di una persona che, priva di affetti o di qualsiasi forma di legame con altri esseri umani al di fuori di quelli «istituzionali», ha cercato disperatamente, con le sue quotidiane esternazioni, di abbracciare il mondo intero.