Italia
Il referendum sul Jobs Act mette già i brividi. Le voci dei cattolici
Ripristinare l’art. 18 e addirittura estenderlo alle aziende sopra i 5 dipendenti, eliminare i voucher per i lavori saltuari, ristabilire la responsabilità solidale tra società appaltatrice e appaltante: sono questi i tre quesiti sui quali il sindacato Cgil ha raccolto 1,1 milioni di firme per ciascuna delle questioni (in totale più di 3 milioni di firme). E’ un referendum-bomba, nel senso che dal sindacato «rosso» viene di fatto un attacco senza precedenti al governo Pd, che vantava il Jobs Act come uno dei principali risultati della propria azione riformatrice in campo economico. Entro poche settimane, l’11 gennaio, la Corte Costituzionale si esprimerà in merito, decretandone l’ammissibilità o piuttosto respingendo la richiesta. Sembra probabile – affermano gli osservatori – che i quesiti siano accolti e quindi che si vada a votare per un «sì» o un «no» entro l’estate. A meno che – come ha notato il ministro Giuliano Poletti – nel frattempo si arrivi alle elezioni anticipate, in primavera, facendo così saltare la consultazione referendaria.
I dati del Jobs Act (e decreti attigui, come la decontribuzione) parlano di un parziale successo: la percentuale di nuovi ingressi «stabili» sul totale delle assunzioni è salita al 29,3%, mentre le nuove assunzioni da marzo 2015 sono risultate 421 mila, delle quali 365 mila «permanenti».
Le «tutele crescenti», punto di forza della riforma renziana, hanno quindi ottenuto dei discreti risultati, anche se – parallelamente – i numeri dell’utilizzo dei voucher (buoni orari da 10 euro lordi, 7,5 euro netti per chi lavora) sono «esplosi»: nel 2008 erano stati 500 mila, quest’anno sono lievitati a 140 milioni (avete letto bene, 140 milioni di «buoni«!) per una media di 500 euro a percettore all’anno. Si calcola che circa 3 milioni di lavoratori li abbiano utilizzati, per una media di 46 voucher a testa e un incasso lordo annuo, appunto, di poco meno di 500 euro.
Alcuni pareri «a caldo» in campo cattolico . A questo punto, passato il Natale, esploderanno i dibattiti: Jobs Act da abolire o conservare. Da parte nostra, abbiamo interpellato alcune realtà del mondo cattolico, per capire come si è iniziato a riflettere su questo ipotetico nuovo referendum. Il presidente nazionale delle Acli, Roberto Rossini, ha detto: «Pur individuando una serie di criticità al momento della sua approvazione in legge, le Acli diedero un giudizio sostanzialmente positivo al progetto di riforma del lavoro voluta dal governo Renzi. Gli oltre due anni di applicazione ci hanno fornito nuovi elementi di valutazione che si vanno ad aggiungere a quelli già emersi. Per questo, le Acli hanno avviato un dibattito interno in previsione dell’eventuale ricorso alle urne per il referendum abrogativo. Un dibattito che sfocerà in una presa di posizione netta e condivisa. Convinti che solo il lavoro possa ridare un progetto al nostro Paese». L’economista dell’Università Tor Vergata di Roma, Leonardo Becchetti, ricorda che «viviamo in un mondo in cui il costo del lavoro risulta bassissimo rispetto al nostro: basti pensare a India, Cina o altre aree in via di sviluppo, come la Birmania dove il salario minimo è di 2,8 dollari al giorno. E noi competiamo con questi paesi. Tornare alla ‘rigidità’ precedente potrebbe essere, per l’Italia, controproducente. Del resto sui voucher ci sono dei problemi, in quando sembrano essere diventati uno strumento di ‘flessibilità’ eccessivo. E’ quindi comprensibile l’allarme sulla permanente precarizzazione del lavoro che il Jobs Act ha solo minimamente ridimensionato. Come risposta – sottolinea Becchetti – direi di rivedere i meccanismi fiscali che incentivano le assunzioni, insieme a una crescita di consapevolezza dei cittadini-acquirenti per un acquisto mirato a sostenere i prodotti e le aziende etiche. Di certo dispiace vedere come nel conflitto profondo tra la Cgil e il Pd renziano prevalga la partigianeria a discapito di una comune volontà di risolvere i problemi in senso propositivo. E’ anche comprensibile l’allarme del mondo industriale, che abolendo il Jobs Act si tornerebbe a un irrigidimento del mercato del lavoro, scoraggiando gli investimenti esteri in Italia».
Il lavoro non si «crea» per legge. Secondo mons. mons. Fabiano Longoni, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei, l’attenzione che si sta alzando sul Jobs Act e sul referendum che potrebbe essere ammesso dalla Consulta in gennaio, si giustifica col fatto che l’insieme delle leggi sul lavoro varate di recente, pur positive, «mancano di alcuni tasselli fondamentali, primo dei quali è l’attenzione forte alla persona che sviluppa se stessa e al contempo trova garantiti alcuni diritti basilari». Circa la contestazione ai voucher, mons. Longoni sottolinea che «una liberalizzazione pura del rapporto di lavoro occasionale dimostra che non siamo davanti a una soluzione risolutiva e valida; del resto non possiamo nemmeno rimanere fermi a una ingessatura antistorica del problema. Ciò che voglio dire – conclude il direttore – è che il lavoro non si ‘crea’ per legge, e nemmeno ingessando la legge, ma semplificandola e quindi promuovendo tutte le realtà coinvolte nell’attività lavorativa, dall’impresa al lavoratore, alle stesse forze sociali, perché insieme diano una spinta propulsiva a un lavoro vero, qualificato e capace di guardare avanti e creare vero progresso economico e sociale».
Il presidente del Movimento Cristiano Lavoratori, Carlo Costalli, ricorda come, «al momento del varo del Jobs Act non siamo stati tra i più entusiasti sostenitori, anche se bisogna riconoscere che dei passi avanti verso una indispensabile liberalizzazione di alcuni meccanismi farraginosi sono stati compiuti. Il risultato è stato un mercato del lavoro all’inizio della sua applicazione un po’ ‘drogato’ dagli incentivi robusti che venivano offerti. Però, una volta ridotti gli stessi, ci siamo accorti che le cose cambiavano perché la nostra economia è ancora debole e incerta e le assunzioni stentano a crescere. Quindi il nostro parere è che una legge come questa non si debba smontare, ma semmai rivedere a livello parlamentare per un aggiustamento migliorativo. E’ normale che una riforma di questo genere, dopo tre-quattro anni, possa avere bisogno di una messa a punto. Occorre farlo anche con il contributo delle forze sociali. Però metto in guardia anche da certo ‘catastrofismo’ imprenditoriale. Rivedere il Jobs Act non sarà la fine del mondo, anche se l’art. 18 non va ripristinato».