Cultura & Società

Il racconto dell’estate: “Sopra i tetti di Firenze”

Una storia inedita dello scrittore fiorentino Leonardo Gori ambientata nell'agosto 1944 quando la guerra passa su Firenze. Un ragazzo scopre la bellezza e la tragedia della vita.

Illustrazione di Francesco Chiacchio

Firenze, agosto 1944. Il ragazzino aveva diciassette anni, un’età in cui allora, come adesso e come sempre, contavano solo le emozioni, che muovevano il cuore in un frullio d’ali. Gli avvisi dei genitori, i saggi consigli, passavano come acqua fresca. Il ragazzino rispondeva solo alla voce della sua anima. Era l’innocenza di uno spirito puro e stupito di fronte al mondo.

Nella vita di tutti i giorni, quell’atteggiamento era normale, anzi doveroso. Vivere di avventura e di amore era necessario, per la crescita di un ragazzo. Ma l’estate del ‘44 non era affatto normale, perché stava passando la guerra su Firenze, come immane tempesta. Le bombe e le mine avevano stravolto la città. L’Arno, il nastro giallo che passava sotto le macerie dei ponti distrutti, tranne il Ponte Vecchio, la divideva in due: da una parte la schiavitù, il terrore e la morte, dall’altra la speranza nella vita nuova.

Erano i giorni dell’emergenza, in attesa del passaggio del fronte, ed era vietato uscire di casa. Mancava da mangiare, e spesso perfino l’acqua. I più vicini alle zone pericolose si rifugiavano nelle cantine. Niente più elettricità: tolte le ruote, vecchie biciclette erano collegate a delle dinamo, rimediate dalle scomparse automobili, e volenterosi pedalatori illuminavano di sera gli ambienti, con fioche lampadine.

Così avevano fatto anche la mamma e il babbo del ragazzo. Nell’ora più calda di quella prigionia, tutti riposavano, chiusi dietro le persiane ombrose della casa all’ultimo piano, vicina ai lungarni. Il ragazzo invece era vigile e pieno di curiosità. A diciassette anni, il pericolo è divertimento, attrattiva, e la morte un concetto inammissibile. Così aveva ignorato le raccomandazioni accorate dei genitori, timorosi per lui più che per sé stessi, più che per qualsiasi altra cosa al mondo. Era sfuggito ai loro occhi ed era andato nelle soffitte del palazzo, che ospitava cento famiglie, e sembrava infinito. Il ragazzo sapeva i pertugi, le scale segrete e i lucernari sconnessi, che si aprivano muovendo appena le inferriate che li reggevano. Aveva attraversato quella galleria afosa e in penombra, lunghissima, ascoltando l’eco delle cannonate lontane: inglesi e americani in avvicinamento; tedeschi sulle colline, a Nord, verso la strada per Bologna. E gli italiani? Sapeva dei partigiani, oltre il fiume, a Sud. Sapeva dei fascisti, che erano fuggiti oltre l’Appennino. Non tutti, però. Di sera, intorno alle radio ormai mute, con le orecchie attente a ogni rumore di cingoli o di passi di stivali cadenzati sull’asfalto, si diceva a voce bassa che dei cecchini erano rimasti sui tetti, ad aspettare i loro nemici, come estreme retroguardie. Ma si diceva anche che non c’era nulla di eroico: quei franchi tiratori sparavano su qualsiasi cosa si muovesse, animale o umano, uomo o donna, vecchi o bambini. Per seminare il terrore, per pura crudeltà, per rabbia, per odio verso il futuro.

L’aria era caldissima e liquida. Il ragazzo salì gli stretti scalini che portavano al terrazzino, sul tetto del grande palazzo. Aprì la porticina di metallo, e dovette fare più forza di quanto aveva previsto. La ruggine la teneva quasi incollata allo stipite, e quando cedette, una polvere rossa gli cadde sulla camicia leggera, sui capelli neri e folti, sulle mani bianche.

Vide una lunga via di tetti rossi, e in basso, d’infilata, la strada. Deserta: solo un carretto con le stanghe posate a terra, accosto alla facciata di un palazzo. Polvere portata dal vento che pareva d’Africa. Il ragazzo sapeva che gli Alleati sarebbero arrivati da Sud, da oltre il Ponte Vecchio, l’unico rimasto in piedi, risparmiato dalle mine tedesche al carissimo prezzo della distruzione di interi rioni.

Per lui, gli americani rappresentavano la fine dell’incubo, forse anche una vaga idea di libertà, orecchiata in famiglia, sempre sottovoce, per paura delle spie. Ma soprattutto gli americani erano la figura eroica di Gary Cooper, visto al cinema in Marocco e Beau Geste, e sui giornalini, le immagini colorate di Flash Gordon e dell’Uomo Mascherato, in giungle di sogno… Camminava esitante, tenendosi in equilibrio sulle tegole di cotto. Alzò il viso verso il cielo bianchissimo, coprendo la fronte con la mano per non essere ferito dai raggi spietati del sole delle due del pomeriggio. Gli parve di vedere degli uccelli, in alto, che sorvolavano la città immobile. Sentì un fremito di eccitazione. Si avvicinò con cautela al bordo del tetto, per guardare meglio la strada. Fu allora che vide due donne che camminavano sotto l’esile ombra del cornicione, una dietro l’altra. Le seguì con lo sguardo: la più giovane portava un secchio di metallo, erano certamente in cerca d’acqua, la fontanella era appena dietro l’angolo, il ragazzo ricordava i giochi con l’acqua, appena un anno prima…

Un colpo di fucile squarciò l’aria. La pallottola colpì il secchio, che rotolò per terra. Il ragazzo vide con orrore la donna più anziana che cadeva, e l’altra che ne trascinava il corpo. Sentì formicolare le gambe. Si accorse che non riusciva a muoversi, e che non respirava più. Riprese fiato, ansimando come un mantice. Udì un secondo colpo di fucile, ma stavolta non guardò di sotto. Capì che lo sparo proveniva proprio dal tetto dov’era adesso. Era stato certamente uno dei franchi tiratori: dunque c’erano davvero, non erano una leggenda.

Pensò soltanto a tornare a casa. Ma solo allora, voltando lo sguardo indietro, si rese conto di aver fatto troppa strada, sui tetti rossi e infuocati. Vide con sgomento il sole che batteva su quella via aerea. Fino a poco prima era stata un sentiero avventuroso, la strada dei mattoni gialli del Mago di Oz, uno dei viadotti futuribili di Gordon nel Reame di Arboria, sul pianeta Mongo. Ora, invece, somigliava solo a un sentiero di morte.

Per lunghi minuti pensò che non avrebbe più rivisto sua madre e suo padre, e gli amici, e la sua stanza, nella sua casa. Che non avrebbe visto l’alba del giorno dopo, quella della libertà e della vita. Che sarebbe morto e di lui gli amici avrebbero perso anche il ricordo.

Mentre era paralizzato dal terrore, scorse un uomo a torso nudo. Senza età, affacciato a una finestra, riparato da un sacco di sabbia, con il moschetto puntato sulla strada.

Anche l’uomo lo vide. Il ragazzo si fermò. Attendeva il colpo. Il terrore lo paralizzava. Non c’era più oggi, ieri o domani. Solo il sole infuocato, che faceva brillare di riflessi la pelle nuda e sudata del franco tiratore fascista. Era stato lui, poco prima, a sparare sulle due donne?

L’uomo lo guardò ancora. Poi fece un cenno muto con la testa: vattene via. Non c’era verso di sbagliare, di non capire. Il ragazzo corse a schiena bassa, come un gatto, saltò le converse di lamiera, passò pericolosamente vicino agli spioventi dei tetti, dieci metri sopra la strada. Poi vide la finestra socchiusa della sua casa.

Appena rientrò nella sua camera, fu invaso da una gioia straordinaria, come l’eruzione di un vulcano. Era il sollievo indicibile di essere vivo. Guardò le sue cose, i suoi libri, le fotografie alle pareti. Tremava di felicità. Ma subito dopo si sentì profondamente in colpa. Perché era stato salvato? Che cosa aveva lui, di diverso, dalle due donne per strada?

Doveva provare riconoscenza, per quell’uomo nudo sul tetto? Oppure odio e disprezzo? O forse, ed era la cosa che gli faceva più male, un misto delle due cose? E com’era possibile, essere dilaniati da sentimenti così diversi, anzi opposti?

Il ragazzo, naturalmente, non disse nulla ai genitori. Andò nel salotto con le persiane chiuse e sbarrate, dette il cambio a suo padre pedalando sulla bicicletta, per alimentare la dinamo e illuminare la stanza. Sua madre aveva preparato una minestra, in quell’ultima sera di Firenze. La scaldò su un fornello a spirito e la mise sul tavolo, con un triste sorriso.

E il ragazzo di sentì improvvisamente vecchio, come se avesse già visto mille vite e mille morti, come se il tetto della sua casa fosse stata la Torre del Tempo.