Cultura & Società
Il «Processo a Gesù» al Teatro dello Spirito a San Miniato
di Andrea Fagioli
Una volta tanto facciamo una recensione teatrale al contrario, partendo dalla valutazione degli attori. Ebbene i quindici del Processo a Gesù, capolavoro di Diego Fabbri andato in scena a San Miniato per la sessantaquattresima edizione della «Festa del teatro», meritano di essere rammentati subito, in apertura. Raramente si incontra tanta qualità nell’interpretazione di tutti i personaggi. È vero, il Processo a Gesù è un dramma corale, ma ci sono ugualmente parti principali e parti minori. Ma nessuna in questo caso è stata inferiore all’altra se non nella durata. Se dunque c’era da aspettarsi la consueta grande interpretazione da parte di Massimo Foschi (Elia), veterano del teatro dello spirito nella medievale piazza del Duomo sanminiatese, appare subito come una piacevole sorpresa il robusto Giuda di Roberto Ciufoli, abituati come siamo a vedere l’attore in tv soprattutto nei panni comici della Premiata Ditta. E se non c’erano dubbi nemmeno per le brave ed esperte Angiola Baggi (commovente e convincente Donna delle pulizie) e Dely de Mayo (Rebecca), così come per Marco Balbi (Pilato) e Renato Campese (Caifa), salutiamo con vero piacere tutto il gruppo dei più giovani a partire da Crescenza Guarnieri (Sara) e Massimiliano Franciosa (Davide) e via via tutti gli altri, quasi tutti impegnati in doppi ruoli: Massimo Reale (un Giudice improvvisato e un Intellettuale), Alice Spisa (Maria), Elisa Di Eusanio (Maddalena e La Bionda), Rocco Piciulo (Giuseppe e il Contraddittorio bonario), Daniele Orlando (Pietro, Primo spettatore e un Sacerdote), Fabio Mascagni (Giovanni e un Provinciale), Domenico Diele (Tommaso e un Infelice).
Il regista Maurizio Panici, alla sua terza «Festa del teatro», è riuscito con maestria nell’intento di mettere insieme un cast motivato che attraverso un uso sapiente della parola ha coinvolto lo spettatore, chiamato ad essere non più semplice osservatore ma complice e testimone di un evento che ancora oggi scuote le coscienze degli individui: la condanna a morte di Gesù.
Diego Fabbri, scomparso trent’anni fa a Riccione (era nato a Forlì nel 1911), raccontava di essersi ispirato a una nota a piè di pagina di una Vita di Cristo nella quale si diceva di alcuni giuristi anglosassoni che dal 1933 si erano interessati da un punto di vista soprattutto giuridico del processo a Gesù.
Da qui lo sviluppo del testo, rappresentato per la prima volta a Milano dal «Piccolo teatro» con la regia di Orazio Costa nel 1955, che propone sulla scena, ricorrendo all’espediente del teatro nel teatro, una compagnia d’ebrei che gira l’Europa inscenando ogni sera lo stesso dramma: il processo al personaggio storico Gesù di Nazareth, sulla cui innocenza questi ebrei, inquieti, ancora s’interrogano. Si tratta di un processo di natura squisitamente giuridica, anche se nel farlo, Elia, il capo del gruppo, pone al pubblico lo stesso dubbio tormentoso che assilla loro. Accanto ad Elia, c’è Rebecca, sua moglie, Sara la loro figlia, vedova di Daniele, il giudice mancante, morto sotto il piombo nazista, e Davide, che solo nell’intermezzo verremo a sapere ebbe, ai tempi in cui era ancora vivo Daniele, una storia d’amore con Sara, tanto da denunciarne ai nazisti il marito. Ai membri della famiglia si aggiungono gli attori-personaggi: la troupe che veste i panni dei protagonisti che allora presero parte al processo: da Caifa a Pilato.
Elia, Rebecca, Sara e Davide interpretano la parte dei giudici, dividendosi i ruoli, sempre in modo diverso attraverso l’espediente del sorteggio, a garantire ogni sera un nuovo andamento processuale e affidando il ruolo di Daniele ad un giudice improvvisato. Ma la sera in cui il processo va in scena, Sara, stanca della solita procedura, chiede che si sentano altri testimoni. Vengono così interrogati, oltre a Caifa e Pilato, coloro che conobbero Gesù da vicino, personaggi della troupe ma che interpretano ruoli improvvisati: gli apostoli, Maria, Giuseppe e la Maddalena. Da queste deposizioni il processo prende una piega imprevista e si umanizza. Intervengono, come se fossero parte del pubblico, vari personaggi: dal prete alla prostituta, alla donna delle pulizie. Ognuno ha visto se stesso nell’uno o nell’altro personaggio storico.
La coralità del dramma si fa completa. Emergono con forza le storie e i tormenti personali, nella continua ricerca di una felicità che alla fine non può che passare dalla speranza cristiana e della continua ricerca della Verità.
L’idea del processo è quindi doppia: processo a Cristo e processo alla cristianità, che chiamata in causa torna però a gridare alla fine del processo il suo bisogno di Cristo.
In ogni caso, Diego Fabbri fu un cattolico senza gruppo, un solitario, uno fuori dalla mischia, dagli schemi. A ricordarlo con commozione è stata la nipote, Benedetta Fabbri, intervenuta, con il critico teatrale Enrico Groppali, al convegno, coordinato da Salvatore Ciulla, su Diego Fabbri e il teatro che ha preceduto, a Palazzo Grifoni, l’anteprima del Processo a Gesù sulla storica piazza del Duomo di San Miniato. «Un testo che a livello linguistico ha spiegato Groppali non è invecchiato di un giorno», anzi risulta «di una sconvolgente attualità». Per Groppali, Diego Fabbri era «un grande illuminato» e senza di lui non sarebbero nati scrittori come Giovanni Testori.
La nipote Benedetta, che ha raccontato l’emozione di poter varcare la soglia dello studio del nonno e di accedere all’archivio, ha citato molti testi di Fabbri nei quali si coglie la profondità del suo pensiero, ma anche della sua fede, compreso l’aneddoto del ciondolo d’oro con una piccola lettera B che Fabbri volle a tutti i costi per la nipote perché non dimenticasse mai come si chiamava e quindi chi era: «Noi non possiamo fare che quel che siamo», diceva il commediografo. E «vivere è un atto di fedeltà a se stessi», mentre Cristo rappresenta il termine ultimo della conoscenza: «Se mi dicessero che Cristo è fuori dalla verità, io diceva Fabbri resterei comunque con Cristo perché Cristo è la concretezza» e il cristianesimo è anche l’unica «strada per un grande teatro popolare», che garantisce un «linguaggio universale».
A firmare la regia, con Claudia Koll protagonista, è lo stesso direttore artistico del «Dramma popolare», Salvatore Ciulla, il quale spiega che «Il prato» racconta «la storia di un amore e di una redenzione: l’amore tra Velia e Bruno e la redenzione di quest’ultimo», un grande testo, «estremamente moderno, che parla ancora con intatta potenza alle nuove generazioni e all’uomo del secondo millennio, e che lo costringe, con delicatezza e carità insieme, a interrogarsi su come spende la vita che ha avuto in dono».
Novità di quest’anno è anche la ripresa in autunno del «Processo a Gesù» che sarà rappresentato ad Orvieto al Teatro Mancinelli il 31 ottobre e al Teatro Diego Fabbri di Forlì dal 3 al 7 novembre per poi proseguire al Teatro Valle di Roma dal 5 al 17 aprile 2011.
Questa sessantaquattresima edizione della «Festa del teatro» ha proposto, in occasione del trentennale della morte di Fabbri e in vista del centenario della nascita il prossimo anno, anche una serie di iniziative collaterali tra cui una mostra e una retrospettiva cinematografica come «Omaggio a Diego Fabbri uomo di cinema: teorico, sceneggiatore, produttore».