Vita Chiesa
Il prete, «segno dell’eterno». ma anche «uomo della gente»
«Non si tratta – ha continuato Betori – di un riconoscimento di carattere puramente intellettuale, pur includendo una dimensione noetica e razionale. Nella sua globalità esso però è un’esperienza spirituale, cioè un’esperienza che coinvolge le strutture fondamentali dell’esistenza umana e le indirizza verso orizzonti di novità. In questa esperienza spirituale del Risorto il prete deve essere il primo a coinvolgersi, per farsi modello ai fratelli di cui è posto al servizio. È un’esperienza in cui va messa in gioco tutta la vita (è questa al fondo la radice del nostro celibato, come pure della nostra obbedienza e della essenzialità nel rapporto con i beni!) e che si sostanzia di un rapporto d’amore, nutrito di ascolto della Parola, di esperienza di grazia mediante i sacramenti, di gesti di perdono e di fraternità. In mezzo ai tanti problemi, tensioni e difficoltà della vita presbiterale non sarà mai abbastanza la cura assidua della dimensione mistica, orante e contemplativa, che dà radici e alimento al nostro rapporto personale con Gesù Cristo».
Riferendosi poi alla dimensione della speranza, che sarà al centro del convegno di Verona, il Segretario della Cei, ha invitato i presbiteri ad essere testimoni reali: «La disillusione e la stanchezza che connotano tanta cultura contemporanea potrebbero aggredire anche i nostri cuori, complici anche l’invecchiamento e il depauperamento dei nostri presbitèri, l’accresciuto carico di servizi cui dover far fronte, un certo senso di solitudine che potrebbe aggredirci di fronte alla crescente secolarizzazione che ci allontana la gente. Essere testimoni di speranza, in queste circostanze, vuol dire sapere di poter contare, con umiltà ma con fierezza, su un tesoro grande che è il Vangelo di Gesù. Non si tratta di farci e di far coraggio, ma di riconoscere come l’opera grande dello Spirito agisce ben oltre i nostri limiti, e come la generosa dedizione di tanti preti – da quelli che si offrono fino all’effusione del sangue a quelli che nel nascondimento consumano la loro vita per i fratelli – ci appartiene come il bene di un amore oblativo che è l’essenza della nostra esistenza sacerdotale».