La seconda Guerra mondiale era da poco finita in Europa, quando in Medio Oriente (o Vicino Oriente, come un tempo, forse più correttamente, gli italiani definivano quella zona geografica) è iniziato un conflitto che non è mai finito. È opinione diffusa che solo la diplomazia internazionale possa mettervi termine e far sì che israeliani e palestinesi imparino a coabitare; gli sforzi dei singoli o delle associazioni sembrerebbero inutili.Non la vede così la compagnia di Santa Bona. Fin dal 2002 ha scelto di assegnare il suo premio annuale, intitolato alla santa pisana patrona delle hostess italiane, a personalità che nel mondo – e in particolare in Terra Santa – hanno creduto nella politica dei «piccoli passi», nella convinzione che anch’essi siano necessari al raggiungimento della pace.Quest’anno l’assegno di 3.000 euro del premio non andrà a una singola persona, ma a un intero villaggio: l’Oasi di Pace (Nevé Shalom / Wahat al-Salam, rispettivamente in ebraico e in arabo), dove convivono ebrei e arabi palestinesi di cittadinanza israeliana, impegnati in un’opera di educazione alla pace, all’uguaglianza e alla cooperazione fra le due popolazioni. Ritirerà il premio, giovedì 29 (ore 17), nella Sala delle Baleari, in municipio, la segretaria dell’Associazione Italiana Amici di Nevè Shalom Wahaat as Salam, Franca Ciccolo, vedova del primo presidente, Renzo Fabris. A lei abbiamo chiesto di parlarci del villaggio, a cominciare dalla storia del suo fondatore, padre Bruno Hussar.«La famiglia di Bruno Hussar era metà ungherese e metà francese. Fino a 18 anni Hussar studiò al Cairo, in scuole italiane, poi frequentò l’università, e quindi si convertì al cristianesimo, senza per questo rinunciare alla propria identità ebraica. Entrò nell’ordine domenicano e successivamente prese gli ordini sacerdotali. I domenicani lo inviarono a Gerusalemme per fondare un centro studi sull’ebraismo (la casa di S. Isaia) e dopo la Guerra dei Sei Giorni partecipò al Concilio Vaticano II in qualità di esperto nei rapporti tra cristiani ed ebrei».Quando gli venne l’idea di fondare l’Oasi della Pace?«Maturò negli anni, e il villaggio non divenne subito quello che ora conosciamo. Ebbe mille traversie e visse avventure che sarebbe lungo raccontare. Ottenne il terreno da un monastero trappista pagando solo un affitto simbolico. E rimase praticamente solo finché, dopo due o tre anni, cominciarono ad arrivare le prime famiglie».Cosa li convinse a trasferirsi nel villaggio?«L’idea dell’uguaglianza tra israeliani e palestinesi, e la possibilità di educare i propri figli alla conoscenza reciproca, pur mantenendo ognuno la propria identità. Un lavoro difficile. Nel 2008 si celebrano i sessant’anni della fondazione dello stato di Israele: per alcuni è una festa, per altri è l’inizio di una tragedia.»Quali sono i luoghi intorno a cui si sviluppa la vita del villaggio? «Innanzitutto la Scuola per la pace, fondata nel 1979 proprio per diffondere all’esterno l’impatto educativo del villaggio. Nella scuola si può anche diventare facilitatori, professionisti che sanno mettere in relazione mentalità e storie diverse. C’è poi la Casa del Silenzio (Dumìa), una costruzione appartata, uno spazio dedicato alla meditazione, alla riflessione o alla preghiera. Il nome è tratto da Isaia («Per Te, il silenzio – dumìa – è lode», Salmo 65,2) e Bruno Hussar la volle nella convinzione che, per quanto separate le une dalle altre siano le persone, animate da credenze o da culture differenti, esse possano tuttavia trovare in Dumìa un comune santuario. Lì accanto, nel 2006, è sorto il Centro Spirituale Pluralistico, uno spazio destinato a incontri e attività principalmente tra gli esponenti delle tre religioni monoteiste».Iniziative apprezzabili ma quanto capaci di incidere in una terra in cui i popoli sono perennemente in lotta?«Il villaggio, anche se si chiama oasi, non è isolato dal mondo. Oltre 25mila giovani hanno partecipato ai corsi della Scuola per la pace e il 90% per cento dei bambini che frequentano la scuola vengono dai villaggi vicini. Siamo poi collegati ad altre istituzioni: ad esempio ad Hand in hand fondata da un ebreo e da un palestinese, e a Parent’s Circle, fondata da uno dei primi abitanti del villaggio. Ci sono poi le 12 associazioni internazionali di supporto – ideale ed economico – omologhe di quella italiana, che ha 160 soci e circa 3.000 amici. Ma aldilà dei numeri voglio rispondere: non bisogna spegnere le piccole luci, perché sono quelle che poi illumineranno il tutto».Alla cerimonia di premiazione parteciperanno Marco Filippeschi, sindaco di Pisa; Andrea Pieroni, presidente della provincia; Giorgio Ballini, amministratore delegato di SAT; e Alessandro Bandini, presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di San Miniato, enti e società che da sempre sostengono le attività della Compagnia di Santa Bona.Dopo la premiazione, tutti nella chiesa di San Martino in Kinseca (dov’è conservato il corpo della santa pisana) e dove l’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto presiederà una concelebrazione eucaristica, concelebrata dai sacerdoti della città.Va intanto avanti (e viene discussa questi giorni in giunta comunale) la proposta di un gemellaggio tra le città di Pisa e Santiago de Compostella.