Vita Chiesa

Il Papa pellegrino di pace in Terra Santa

Salam Aleikum: la pace sia con voi. Il saluto che Benedetto XVI ha rivolto ai trentamila arabi cristiani riuniti nello stadio di Amman riassume bene il senso della visita di Benedetto XVI in Giordania. Un viaggio di pace, un viaggio per ritrovare i fili di fraternità che legano ebrei, musulmani e cristiani. E la Giordania si è rivelata, per tanti aspetti, il luogo giusto in cui riallacciare il dialogo, in cui superare incomprensioni antiche e nuove. Poi da lunedì, la tappa israeliana. Ecco il «diario» di questo evento straordinario curato dal nostro inviato al seguito del Papa, Riccardo Bigi. LO SPECIALEI DISCORSI IN GIORDANIA I DISCORSI IN ISRAELEdall’inviato RICCARDO BIGI

AMMAN 8 maggio 2009. Suor Adriana è una comboniana italiana, in Giordania dal 2001: è una delle suore che gestiscono la casa Regina Pacis, che il Papa ha visitato questo pomeriggio nel suo primo giorno in Giordania. “Per noi è un grande regalo” dice commossa. La struttura, creata dal Patriarcato Latino di Gerusalemme, è la casa madre di una realtà che comprende una trentina di altri centri in tutto il Paese, attivi nell’accoglienza di disabili. “Senza fare distinzioni tra cristiani e musulmani”, sottolinea. “E’ bello vedere il Papa qui, tra noi, a parlare di pace. Qui oggi ci sono tanti giovani in festa, speriamo che questa bella accoglienza sia di buon auspicio per un viaggio che, nelle prossime tappe, sarà molto delicato”.

E non si può dire che il viaggio di Benedetto XVI non sia partito col piede giusto, e con le parole giuste. Il suo discorso all’aeroporto di Amman (testo integrale), appena sbarcato, è stato molto apprezzato: “La mia visita in Giordania mi offre la gradita opportunità di esprimere il mio profondo rispetto per la comunità Musulmana”. Il Papa ha elogiato gli sforzi della Giordania “per trovare una giusta soluzione al conflitto israelo-palestinese” e per tenere a freno l’estremismo. Ad accoglierlo, il re Abdallah II Bin al-Hussein con la regina Rania. A rappresentare la Chiesa giordana il nunzio apostolico, Francis Chullikatt, il patriarca di Gerusalemme Fouad Twal, gli ordinari di Terra santa, patriarchi e vescovi. Il Re, da parte sua, ha offerrto al Papa parole di grande amicizia: “Provocazioni, ideologie ambiziose che puntano a dividere, rappresentano la minaccia di sofferenze indicibili. Dobbiamo opporci a questa corrente per il futuro del mondo”. Soddisfare “il diritto dei palestinesi alla libertà e il diritto degli israeliani alla sicurezza”: questa, secondo re Abdallah, la strada per portare pace in Terra Santa.

Il tema della pace è sicuramente il grande tema di questo viaggio papale: Benedetto XVI ne ha parlato ampiamente con I giornalisti in aereo, durante il volo, quando ha sottolineato le “radici comuni” alle quali dobbiamo rifarci per superare i “malintesi” che secoli di separazione possono far nascere. E il tema della pace ha segnato il discorso che il Papa ha tenuto al centro Regina Pacis (testo integrale), che ha chiuso questa prima giornata del suo viaggio in Terra Santa: “Vengo semplicemente con un’intenzione, una speranza: pregare per il regalo prezioso dell’unità e della pace, specificatamente per il Medio Oriente. Pace per Gerusalemme, per la Terra Santa, per l’intera famiglia umana”. Da Gerusalemme intanto giunge la notizia che esponenti del Governo hanno chiesto al Papa di dire una parola contro il negazionismo. Polemiche che, mentre il Papa parla davanti ad alcune centinaia di giovani festanti, sembrano molto lontane.

Sul Monte Nebo (testo integrale del discorso)

LA VISITA ALLA MOSCHEA: NO AD UNA MANIPOLAZIONE IDEOLOGICA DELLA RELIGIONE

AMMAN 9 maggio 2009. Per i giornalisti, in sala stampa, sembra che la questione principale sia capire perché il Papa non si è tolto o meno le scarpe (i suoi ormai caratteristici mocassini rossi) prima di entrare nella moschea di al-Hussein, la moschea di Stato della Giordania. Il portavoce della Santa Sede, padre Raffaele Lombardi, è molto preciso nello spiegare che il Santo Padre era pronto a farlo, ma che quando è stato accolto all’ingresso è stato accompagnato su una stuoia che era stata posta per l’occasione sopra i sacri tappeti della moschea. Nessuna mancanza di rispetto verso un’antica usanza islamica, quindi, ma un gesto di accoglienza dei capi religiosi musulmani nei suoi confronti.

Una volta all’interno, ha spiegato ancora padre Lombardi, il Papa “non ha pregato, perché non sarebbe corretto e rispettoso che un cristiano preghi in un luogo di culto di un’altra religione, ma si è semplicemente fermato in raccoglimento”. Ad accompagnarlo c’erano il principe Ghazi, cugino di re Abdallah e suo consigliere per le questioni religiose, e l’architetto che ha progettato la moschea. In realtà, la terza volta di un Papa in un tempio musulmano (dopo la visita di Giovanni Paolo II a Damasco nel 2001 e quella dello stesso Benedetto XVI a Istanbul) è stata importante non solo per la visita fatta all’interno quanto per le parole pronunciate fuori (testo integrale del discorso): “Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli”. Benedetto XVI ha messo in guardia contro i rischi di una “manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici” e ha esortato una “maggiore conoscenza reciproca”.

E soprattutto, ha richiamato un tema a lui caro: “La sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana”. E’ questo secondo il Papa “il compito che cristiani e musulmani possono assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società”. “Quali credenti nell’unico Dio – ha proseguito – sappiamo che la ragione umana è in se stessa dono di Dio, e si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità di Dio”.

Il Papa ha voluto rivolgere un saluto particolare anche al patriarca di Bagdad, Emanuele III Delly: “La sua presenza richiama alla mente i cittadini del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza qui in Giordania. Ancora una volta, chiedo con insistenza alla comunità internazionale e ai leader politici e religiosi locali di compiere tutto ciò che è possibile per assicurare all’antica comunità cristiana di quella nobile terra il fondamentale diritto di pacifica coesistenza con i propri concittadini”.

Ad ascoltare il Papa, davanti a questa moderna moschea costruita su una collina che domina la città di Amman, una platea ristretta ma estremamente qualificata: capi musulmani ma anche vescovi cattolici e ortodossi, insieme a consoli e ambasciatori, rettori delle università, esponenti del mondo culturale. Un insieme di colori, di abiti, di volti che fa respirare l’importanza di questo incontro tra cristianesimo e islam. Sullo sfondo c’è anche il discorso che il Papa fece a Ratisbona, nel 2006, e che a causa di un fraintendimento suscitò una risentita reazione nel mondo islamico. Un discorso la cui eco in queste terre è ancora presente. Ce lo conferma la giornalista libanese che abbiamo accanto: “Sappiamo che l’attenzione principale riguardo a questo viaggio del Papa è puntata su Gerusalemme e i territori palestinesi. Ma tra i musulmani c’è anche molta attesa di avere una parola di amicizia che permetta di superare ogni dubbio sul pensiero della Chiesa cattolica verso l’Islam: e il posto giusto per far ripartire il dialogo è proprio la Giordania”.

Non è un caso quindi che il discorso con cui il principe Ghazi ha accolto Benedetto XVI sia partito proprio da qui, dal “misunderstanding” sorto dopo il discorso di Ratisbona. “Abbiamo apprezzato – dice, come a voler chiudere una volta per tutte quell’episodio – le chiarificazioni date dal Vaticano”. Il principe è tra i principali firmatari della “Lettera dei 138” inviata al Papa nel 2007 in cui si parlava dell’amore per Dio e per il prossimo come terreno comune di incontro tra cristianesimo e Islam: quel documento ha costituito un passo importante nel dialogo tra le religioni.. E’ importante quindi che da lui, una delle autorità religiose più importanti del suo Paese e di tutto il Medio Oriente, siano venute parole di accoglienza, di affetto e di stima verso il Papa e verso i cristiani che abitano queste terre. “I cristiani giordani – ha detto – non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno contribuito a costruire questo Paese ricoprendo ruoli importanti nell’educazione, nella salute, nel turismo, nel commercio, nella scienza”.

A concludere questa seconda giornata del viaggio del Papa in Terra Santa, nel pomeriggio, i vespri nella cattedrale greco-melkita di San Giorgio, alla periferia di Amman. In questa che è la nuova sede dell’arcivescovado greco-melkita il Papa ha trovato ad accoglierlo i rappresentanti delle tante Chiese Cattoliche presenti in queste terre: Maronita, Sira, Armena, Caldea, Latina, oltre all’arcivescovo greco-ortodosso. “L’antico tesoro vivente delle tradizioni delle Chiese Orientali – ha detto – arricchisce la Chiesa universale”. Il Papa ha ricordato ed elogiato in particolare le “numerose iniziative di universale carità” portate avanti dai cristiani (scuole, ospedali, centri per disabili…): iniziative, ha sottolineato, che “si estendono a tutti i Giordani – Musulmani e di altre religioni – ed anche al vasto numero di rifugiati che questo regno accoglie così generosamente”.

LA MESSA ALLO STADIO DI AMMAN: COSTRUIRE NUOVI PONTI

AMMAN, 10 maggio. «Benvenuto Benedetto»: il grido dei trentamila arabi cristiani arrivati da tutta la Giordania, ma anche dal Libano e dalla Siria, ha accolto il Papa nello stadio di Amman per la Messa della domenica, il momento più festoso della visita di Benedetto XVI in Giordania.

Sul prato, davanti al grande palco, 500 bambini venuti per ricevere la Prima Comunione, con la kefia rossa appoggiata sopra gli abiti bianchi. Il Papa saluta con il tipico saluto arabo, «Salam Aleikum»: la pace sia con voi. Nell’omelia (testo integrale), ancora un richiamo al «coraggio di costruire nuovi ponti per rendere possibile un fecondo incontro di persone di diverse religioni e culture e così arricchire il tessuto della società» e un invito a «dare testimonianza all’amore che ci ispira a sacrificare la nostra vita nel servizio degli altri e così a contrastare modi di pensare che giustificano lo stroncare vite innocenti».

Tra i fedeli c’è un entusiasmo bellissimo: tra gli animatori anche un prete libanese, padre Fady Tale, chiamato apposta per la sua capacità di coinvolgere i giovani: un giovane sacerdote che dirige una radio e una compagnia teatrale, canta, suona, compone musica. «La presenza del Papa – sottolinea – è importante per ridare slancio alle comunità cristiane in Terra Santa».

L’ultima giornata del viaggio del Papa in Giordania (testo integrale), prima tappa di questo suo pellegrinaggio in Terra Santa, si è conclusa con la visita al luogo del Battesimo di Gesù, sul fiume Giordano, dove il Papa ha benedetto le prime pietre di due chiese cattoliche, una del Patriarcato Latino di Gerusalemme e una del patriarcato Greco-melkita, che saranno costruite qui: un altro segno di una presenza cristiana che vuole essere una presenza viva e che guarda al futuro.

ANTISEMITISMO INACCETTABILE

TEL AVIV 11 maggio. E’ un Papa sorridente quello che scende le scalette dell’aereo che, dalla Giordania, lo ha portato a Tel Aviv. L’incontro con il presidente israeliano Shimon Peres, all’aeroporto, è stato cordiale e aperto. Dal Papa sono arrivate parole forti di condanna dell’antisemitismo (testo integrale): «Ogni sforzo deve essere fatto per combattere l’antisemitismo dovunque si trovi, e per promuovere il rispetto e la stima verso gli appartenenti ad ogni popolo, razza, lingua e nazione». Benedetto XVI Ha anche toccato uno dei punti più delicati che riguardano la “città santa” di Gerusalemme: «E’ mia fervida speranza che tutti i pellegrini ai luoghi santi abbiano la possibilità di accedervi liberamente e senza restrizioni, di prendere parte alle cerimonie religiose e di promuovere il degno mantenimento degli edifici di culto posti nei sacri spazi». Il presidente Peres, da parte sua, ha avuto calorose parole di benvenuto: «Spero che questa visita – ha detto – possa essere una continuazione del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo». Un viaggio che inizia nel migliore dei modi, quindi: anche se ancora molti sono, oggi e nei prossimi giorni, i momenti importanti e delicati in programma. Molta attesa in particolare per la visita allo Yad Vashem, dove il Governo israeliano si aspetta una parola precisa contro le tesi negazioniste sulla Shoah.

P. FALTAS: MOMENTO STORICO PER I CRISTIANI

GERUSALEMME 11 maggio. La terrazza sul tetto del convento francescano, nella città vecchia di Gerusalemme, affaccia sopra i tetti regalando un panorama che abbraccia campanili, cupole e minareti. Padre Ibrahim Faltas, il parroco di Gerusalemme, ci tiene a farci vedere la bellezza della sua città. La sua è l’unica parrocchia latina di Gerusalemme ed è, con i suoi seimila fedeli, la comunità cristiana più grande: le altre Chiese ne sommano in tutto quattromila. L’arrivo del Papa per lui è un momento faticoso, visto che ha dovuto collaborare intensamente all’organizzazione dei diversi momenti, ma anche una grandissima gioia. «Questa visita – ci dice – è un momento storico per tutti i cristiani che vivono in questa terra. Il Papa si è presentato portando parole di pace e noi sappiamo che finché non ci sarà pace a Gerusalemme non ci sarà pace per il mondo intero. Lo diceva Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, lo ha detto Giovanni Paolo II quando è venuto qui nel 2001: e l’attenzione del mondo, adesso, per la visita di Benedetto XVI lo conferma. L’invocazione fatta stamani dal Papa al suo arrivo a Tel Aviv, a “esplorare ogni possibile via per la ricerca di una soluzione giusta” al conflitto tra israeliani e palestinesi, corrisponde a un desiderio di pace che è nel cuore di tutti».Il pellegrinaggio del Papa, ci racconta padre Ibrahim, viene visto con qualche diffidenza dalla popolazione ebraica, ma il suo arrivo è stato ben preparato: il Governo ha fatto anche molti incontri nelle scuole per spiegarne il significato e il valore. L’arrivo del Papa poi è salutato con grande favore dai musulmani, che vedono nel suo viaggio un passo avanti nel difficile cammino di pace. Restano, certo, tante questioni aperte che neanche questa visita permetterà di superare: «Per i nostri cristiani che vivono nei territori palestinesi, ad esempio – ci dice – è difficile accedere ai luoghi santi, come pure agli ospedali o ai luoghi di lavoro, e questa situazione è stata molto peggiorata dalla costruzione del muro». I cristiani di Terra Santa, intanto, continuano nel loro impegno: in tutti i suoi discorsi di questi giorni il Papa ha sempre affidato loro il compito di contribuire, con il loro impegno, a superare i conflitti e a portare pace e amicizia. «Siamo consapevoli di questa responsabilità – afferma padre Ibrahim – e a nostra volta chiediamo alle comunità cristiane di tutto il mondo di sostenerci e aiutarci. Attraverso Toscanaoggi voglio salutare e ringraziare in particolare i tanti che dalla Toscana, anche attraverso la Fondazione Giovanni Paolo II, ci danno una mano».

UN SILENZIO PER RICORDARE

YAD VASHEM, 11 maggio. Un canto lento e struggente, sulle parole di un giovane poeta ucciso in un campo di concentramento, ha accolto il Papa nella «Hall of Remembrance» del memoriale di Yad Vashem. E’ qui che gli ebrei custodiscono il ricordo della Shoah e dei sei milioni di ebrei uccisi durante le persecuzioni naziste. Qui si trova anche il famoso «Giardino dei giusti fra le nazioni», in onore delle persone che hanno rischiato la propria vita per salvare gli ebrei dallo sterminio. Gli italiani qui ricordati sono in tutto 442: tra di essi ci sono anche il medico senese Enzo Casini, i preti fiorentini don Giulio Facibeni e don Leto Casini, madre Maddalena Cei, all’epoca superiora del convento delle Serve di Maria a Firenze, e anche il lucchese padre Arturo Paoli, uno dei pochi ancora in vita.L’atmosfera è carica di emozione: l’ambiente è spoglio, con le sue mura fatte di enormi pietre. Poco prima dell’arrivo di Benedetto XVI, una voce invita i presenti a seguire in silenzio la cerimonia. Ai canti si alternano le testimonianze dei sopravvissuti e la deposizione di una corona di fiori. Quando viene chiamato a tenere il suo discorso, il Papa esita, come paralizzato. Poi le sue parole, tutte tese ad onorare la memoria delle vittime della Shoha. «I nomi custoditi in questo venerato monumento – dice – avranno per sempre un sacro posto tra gli innumerevoli discendenti di Abramo. Come avvenne per Abramo, anche la loro fede fu provata. Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente. Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie come questa!». Poi, il silenzio: «Un silenzio per ricordare, un silenzio per pregare, un silenzio per sperare». Mentre torna a sedere, il rabbino che lo ha guidato nella visita allo Yad Vashem si alza a stringergli la mano. Poi, la firma sul libro dei visitatori: la frase che il Papa scrive è tratta dal Libro delle Lamentazioni, «Non sono esaurite le sue misericordie».

UNA GIORNATA DEDICATA AL DIALOGO CON LE RELIGIONI

GERUSALEMME 12 maggio. Dopo la parte «politica», ieri, con gli incontri con il presidente israeliano Shimon Peres a la visita al memoriale della Shoah, questa seconda giornata della visita del Papa a Gerusalemme è la giornata del dialogo con le religioni. Una giornata iniziata presto, alle 9 (le 8 italiane) con la salita alla spianata delle moschee e la visita alla «Cupola della Roccia», la grande cupola dorata che compare in ogni panorama della città e che anche qui, dalla terrazza del press center, possiamo ammirare. L’edificio sacro islamico più antico al mondo: un luogo, ha detto il Papa, che «conduce i nostri cuori e le nostre menti a riflettere sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo. Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano ricordandoci quello che esse hanno in comune». «E’ scontato – ha aggiunto – che coloro che adorano l’Unico Dio manifestino essi stessi di essere fondati su e incamminati verso l’unità dell’intera famiglia umana». Pochi metri di cammino per arrivare a ciò che resta del muro dell’antico tempio di Salomone, quello che noi chiamiamo il «Muro del Pianto» e che per gli ebrei è il più caro luogo di preghiera. L’immagine del Papa, solo, in preghiera davanti a queste antiche pietre richiamava alla mente quella del suo predecessore, Giovanni Paolo II, nel 2001. Entrambi hanno affidato all’unico Dio, in questo luogo così significativo, le loro speranze di pace per l’umanità. Subito dopo, incontrando i due Gran Rabbini di Gerusalemme, ha detto: «Oggi ho l’opportunità di ripetere che la Chiesa cattolica è irrevocabilmente impegnata sulla strada decisa dal Concilio Vaticano Secondo per una autentica e durevole riconciliazione fra cristiani ed ebrei». Il dialogo passa anche attraverso temi concreti di impegno comune: «Ebrei e cristiani sono ugualmente interessati ad assicurare rispetto per la sacralità della vita umana, la centralità della famiglia, una valida educazione per i giovani, la libertà di religione e di coscienza per una società sana. Questi temi di dialogo rappresentano solo la fase iniziale di ciò che noi speriamo sarà un solido, progressivo cammino verso una migliorata reciproca comprensione». L’accoglienza da parte dei leader religiosi ebraici, su cui c’era qualche dubbio, si è rivelata calorosa. Una certa diffidenza si respira comunque tra la gente, che appare a volte incuriosita, a volte infastidita. Le misure di sicurezza appaiono meno «invadenti» di quanto si poteva immaginare, ma creano qualche disagio. «Lo facciamo per proteggere il Papa, spero che ci siate riconoscenti» ci dice un ebreo ortodosso, con tanto di cappello nero e codino sulle tempie, mentre aspetta che la strada che deve attraversare, e da cui è appena passata l’auto di Benedetto XVI, venga liberata dalle transenne.

LA MESSA ALLA JOSAPHAT VALLEY: L’AGONIA DI UN POPOLO

GERUSALEMME 12 maggio. E’ un discorso duro quello con cui il Patriarca di Gerusalle Foud Twal saluta il Papa; davanti ai 5mila fedeli venuti per la Messa nella Josaphat Valley, la valle che separa le mura della città vecchia dal giardino del Getsemani. Davanti a noi, dice, c’è l’agonia della gente palestinese, c’è l’agonia della gente israeliana che sogna una vita tranquilla e in pace. Noi preghiamo per la realizzazione dei sogni di questi due popoli, preghiamo per una Gerusalemme libera per due popoli e tre religioni.Accanto a noi Eli annuisce: “Sono parole forti ma vere, ed era giusto dirle”. Eli è il ragazzo che poco più tardi porterà le ostie, all’offertorio, con la kefia al collo. Farlo non è stato facile, ci rivela: ha dovuto portare la kefia di nascosto. “Altri hanno provato, ma la sicurezza israeliana le ha sequestrate. Io ci tenevo a presentarmi al Papa con un segno della mia tradizione, quindi una ragazza che era con me l’ha nascosta sotto i vestiti”. Twal parla del muro, che è illegale, dice, e richiede una soluzione, parla dell’emigrazione che colpisce la comunità cristiana a causa delle umiliazioni e dei soprusi subiti dai cristiani. Il Papa, nell’omelia, è più diplomatico del Patriarca, ma parla anche lui delle “difficoltà, la frustrazione, la pena e la sofferenza che tanti tra voi hanno subito in consueguenza dei conflitti che hanno afflitto queste terre ed anche le amare esperienze dello spostamento che molte delle vostre famiglie hanno conosciuto e – Dio non lo permetta – posso ancora conoscere”. L’ultima parola del Papa è quasi un grido: “In Terra Santa c’è posto per tutti!”.

BETLEMME: UNA PATRIA PER I PALESTINESI

BETLEMME 13 maggio. «La Santa Sede appoggia il diritto del Suo popolo ad una sovrana patria Palestinese nella terra dei vostri antenati, sicura e in pace con i suoi vicini, entro confini internazionalmente riconosciuti». Usa parole precisa, il Papa, per indicare la strada da seguire per uscire dalle paludi del conflitto israelo-palestinese. La sua visita a Betlemme, stamani, è iniziata con un discorso di saluto al presidente dell’Autorità Palestinese : Benedetto XVI ha affrontato subito i temi più scottanti. Quello della difficile situazione di vita dei palestinesi: “E’ mia ardente speranza che i gravi problemi riguardanti la sicurezza in Israele e nei Territori Palestinesi vengano presto decisamente alleggeriti così da permettere una maggiore libertà di movimento, con speciale riguardo per i contatti tra familiari e per l’accesso ai luoghi santi”. Ma anche il tema del terrorismo: “Rivolgo questo appello ai tanti giovani presenti oggi nei Territori Palestinesi: non permettete che le perdite di vite e le distruzioni, delle quali siete stati testimoni suscitino amarezze o risentimento nei vostri cuori. Abbiate il coraggio di resistere ad ogni tentazione che possiate provare di ricorrere ad atti di violenza o di terrorismo. Al contrario, fate in modo che quanto avete sperimentato rinnovi la vostra determinazione a costruire la pace”. Betlemme è in festa, piena di bandiere, striscioni, frati e suore, fedeli giunti da tutta la Palestina che in questo momento affollano piazza della Mangiatoia, in attesa della Messa. Ci sono anche (almeno quelli che sono riusciti ad arrivare) i cristiani di Ghaza, che hanno dovuto superare non poche difficoltà. Nel pomeriggio il Papa visiterà il Caritas Baby Hospital, poi il campo profughi di Aida. Una giornata che si preannuncia molto calda.

NAZARETH 14 maggio. Dal campo profughi di Aida, a Betlemme, al monte del Precipizio a Nazareth: il viaggio di Benedetto XVI è pieno di passaggi bruschi che rendono lampanti tutte le contraddizioni di queste terre. Ieri pomeriggio il Papa ha visitato il “refugee camp” più grande della zona di Betlemme, quasi 4mila persone (quasi tutte musulmane) alcune delle quali sono qui fin dal 1950, quando il campo fu aperto. L’immagine del palco papale, con alle spalle una rete di filo spinato e, imponente, il famoso muro che circonda Betlemme e taglia in due la “west bank”, è impressionante. L’atmosfera però è gioiosa, commovente: bambine e bambini in costume palestinese che danzano e cantano per il Papa, che recitano poesie sulla pace. Dietro il Papa, una scritta in verde dice “Chi non studia è nemico della saggezza”: qui infatti siamo nel cortile della scuola che l’Onu gestisce all’interno del campo. Accanto a noi c’è Omar, ha solo due anni e un bellissimo sorriso. E’ con la nonna: i genitori lavorano nel Golfo d’Arabia. Parlano solo arabo, non ci capiamo ma si capisce che sono felice di avere qui tanti giornalisti, telecamere, l’attenzione del mondo.«Siamo felici che il Papa sia venuto qui e abbia visto come vive la gente» ci dice fra Jaques Frant, un monaco greco-cattolico di Taybeh, il villaggio cristiano che sorge sull’antica Efraim e che da anni è legato a Firenze, in particolare all’associazione Coltiviamo la Pace e alla basilica di San Lorenzo. «Noi siamo cristiani – dice – ma anche palestinesi, e condividiamo il desiderio della nostra gente di poter essere libera di muoversi, di lavorare, di incontarsi». Il Papa dice parole forti sulla sofferenza dei palestinesi, sul muro che segna il “punto morto” a cui è arrivato il confronto israelo-palestinese. Gli abitanti del campo hanno apprezzato le sue parole. “Siamo contenti – ci dice fra Jaques – che il Papa abbia sollecitato l’attenzione della comunità internazionale”. Stamani invece l’atmosfera è completamente diversa: 40mila persone riempiono le gradinate, la comunità cristiana di Galilea è una delle più numerose della Terra Santa. “Aish il Papa”, gridano, viva il Papa. “Sono felice di essere a Nazareth, il luogo benedetto dal mistero dell’Annunciazione” dice il Papa, salutando i tanti cristiani che “nella diversità dei loro riti e delle loro tradizioni, sono l’espressione dell’universalità della Chiesa di Cristo”. Qui infatti vivono i cattolici del Patriarcato Latino, i greco-melkiti, i Drusi, e persino una comunità di cristiani di lingua ebraica.Un pensiero all’Anno della Famiglia, appena celebrato dalle Chiese di Terra Santa: più tardi, il Papa benedirà la prima pietra di un centro internazionale per la famiglia che sarà costruito a Nazareth. Il pensiero corre subito alla Sacra Famiglia, che proprio qui a Nazareth aveva la sua casa, a Maria, a Giuseppe, all’infanzia di Gesù: il Papa ricorda il ruolo speciale che il Concilio attribuisce ai bambini nel far crescere i genitori nella santità.Alla fine di un’omelia molto spirituale, non sono mancati neanche oggi i riferimenti “politici”: Nazareth ha visto recentemente tensioni tra comunità cristiane e musulmane. Esorto le persone di buona volontà di entrambe le parti, ha detto il Papa, a riparare i danni che sono stati fatti e, nel nome della fede comune nell’unico Dio, padre della famiglia umana, a lavorare per costruire ponti di pace. Il potere distruttivo dell’odio e del pregiudizio, ha affermato, uccide le anime prima ancora dei corpi!

LA SORPRESA DEL RABBINO

NAZARETH 14 MAGGIO. Un “fuori programma” ha segnato la penultima giornata del viaggio del papa in Terra Santa: un bell’episodio che arriva al termine dell’incontro interreligioso che ha preceduto i vespri nella basilica dell’Annunciazione. Al termine della cerimonia, il rabbino Alon Goshen-Gottstein, direttore dell’Elijah Interfaith Institute, ha proposto di pregare tutti insieme su un canto da lui composto che chiede a Dio ”Shalom, Salam”, pace. A quel punto, gli esponenti cristiani, ebrei e musulmani si sono alzati in piedi e Benedetto XVI ha preso per mano i suoi due vicini, il rabbino David Rosen e un imam. Quella del rabbino, è stato il commento del portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi, è stata ”un’idea geniale e creativa, perché nessuno può obiettare che non si possa cantare insieme Dona nobis pacem”.Il viaggio è vicino al termine: resta, domani, la visita al Santo Sepolcro, il luogo della Resurrezione: il luogo dove nasce la fede cristiana. Un luogo che simboleggia anche le divisioni tra i cristiani, che da secoli si alternano, non senza contestazioni reciproche, nell’amministrazione della chiesa. Speriamo che la preghiera sia un’occasione di unità.

LA SPERANZA CHE NASCE DALLA TOMBA VUOTA

GERUSALEMME 15 MAGGIO. Si fa presto a dire “cristiani di Terra Santa”. La presenza cristiana, nei luoghi che hanno fatto da cornice alla vita terrena di Gesù, è un microcosmo variegato e complesso. Il santo Sepolcro, che il Papa ha visitato questa mattina nel suo ultimo giorno in Israele, ne è il segno: luogo di dissidie, per secoli, tra le diverse confessioni cristiane, attualmente è amministrato da cattolici, greco-ortodossi e armeno-apostolici che si suddividono orari e spazi per la preghiera secondo un antico atto, lo “statu quo”, voluto dagli Ottomani per dirimere i litigi. Una varietà che si vede negli abiti e nei paramenti di vescovi, sacerdoti, frati e monaci che hanno accolto, stamani, l’arrivo del Papa: gli alti cappelli neri degli ortodossi, le fasce viola e rosse di vescovi e cardinali, i sai marroni dei francescani.Ma questo sepolcro vuoto è anche il luogo della Resurrezione, il punto che segna l’inizio della fede e della speranza cristiana. Il Papa, dopo essersi inginocchiato in preghiera silenziosa sulla pietra che accolse il corpo di Gesù dopo la crocifissione, ha fatto riferimento proprio alla speranza che nasce dalla contemplazione di questa tomba vuota rivolgendosi alle varie comunità che insieme custodiscono il Sepolcro, e ad ogni comunità cristiana: “Possa la contemplazione di questo mistero aiutarci a superare, con la potenza dello Spirito, ogni conflitto e tensione nati dalla carne e rimuovere ogni ostacolo, sia dentro che fuori, che si frappone alla nostra comune testimonianza a Cristo e al potere del suo amore che riconcilia”.La visita al sepolcro è anche l’ultimo momento del pellegrinaggio del Papa ai luoghi di Gesù: un pellegrinaggio che toccato il luogo della nascita, a Betlemme, il luogo dell’annunciazione e poi dell’infanzia e della giovinezza di Gesù, a Nazareth, il luogo del Battesimo, sul Giordano. E poi luoghi della crocifissione, della morte e della resurrezione di Cristo, tutti contenuti nella basilica del Santo Sepolcro. Resta, prima di ripartire per Roma, il saluto al presidente israeliano Shimon Peres e al primo ministro Benjamin Netanyahu. Il Papa dovrà, ancora una volta, ripetere il messaggio di pace che è stato il ritornello della parte “politica” di questo viaggio: l’invito a interrompere il circolo vizioso della violenza, a fermare il terrorismo e la guerra, affermando il diritto di Israele alla sicurezza all’interno dei propri confini, e il diritto dei palestinesi ad avere una propria patria in cui vivere con dignità. (nella foto: Benedetto XVI prende per mano un iman e un rabbino durante l’incontro con i leader religiosi a Nazareth)

LO SPECIALE: Benedetto XVI in Terra Santa