Nel nord della Nigeria la Messa di Natale non si celebra di notte, perché sarebbe pericoloso. E anche di giorno, partecipare alla celebrazione richiede coraggio. Don Udoji Onyekweli è parroco di Montopoli, in diocesi di San Miniato; un suo confratello, suo compagno di seminario in Nigeria, è stato assassinato il 25 giugno scorso, massacrato dai militanti Fulani nella fattoria della sua famiglia, nella diocesi di Kaduna.Don Udoji, ci racconti la sua storia.«Sono un sacerdote della diocesi di San Miniato, sono in Italia dal 2000. Il mio percorso di seminario è iniziato in Nigeria, nel seminario minore a 11 anni, poi il seminario maggiore. Ho interrotto per fare un’esperienza lavorativa, per qualche anno, poi sono venuto in Italia a finire gli studi. Grazie a monsignor Edoardo Ricci, allora vescovo di San Miniato, che mi ha accolto in diocesi. Ho completato gli studi nel seminario di Firenze, alla Facoltà teologica dell’Italia centrale. Da seminarista ho avuto l’opportunità, formandomi in Italia, di vivere esperienza pastorale in parrocchia, di inserirmi nel tessuto sociale e culturale italiano. Dopo l’ordinazione ho fatto esperienza in varie parrocchie, come viceparroco e parroco, e ora sono parroco nella comunità pastorale di Montopoli, Capanne e Marti».Com’è maturata la sua vocazione?«In Nigeria sono cresciuto in una famiglia cattolica: entrambi i genitori si sono convertiti al cattolicesimo e ci hanno cresciuto nella fede. Ho fatto tutta la trafila che si fa in parrocchia, chierichetto, coro, gruppo giovani…»Nel suo percorso ha incontrato don Vitus, assassinato pochi mesi fa.«Con don Vitus Borogo siamo stati compagni di classe nel seminario, l’ho conosciuto molto bene. Io poi sono venuto in Italia, lui invece era stato ordinato prete nel 2000, dopo l’ordinazione ha lavorato in alcune parrocchie e poi è stato mandato come cappellano nell’istituto tecnico della sua zona. Era andato negli Stati Uniti a fare il master come counselor, stava preparandosi al dottorato quando è avvenuta la sua morte tragica».Non l’unica purtroppo, nel 2022 sono stati tre i sacerdoti uccisi in Nigeria.«Purtroppo sono casi a cui non viene data la giusta attenzione, in diversi vengono catturati e rapiti, vengono pagati i riscatti. La Chiesa cerca di sensibilizzare, informare, ma non sempre si fa abbastanza. Quella diocesi, Kaduna, è sotto assedio da sempre, prima dai fondamentalisti islamici e ora da criminali che agiscono sotto la veste di islamici. Questo va specificato, quello che sta accadendo ora va molto a di là della questione religiosa, sono dei criminali, con la connivenza degli apparati governativi, che puntano ad avere il dominio di queste zone del Paese».Un Paese diviso.«Sì, c’è una distinzione storica. Prima dell’arrivo degli inglesi la Nigeria non esisteva, esistevano delle comunità, delle nazioni separate. Dalla zona settentrionale, dal deserto, sono arrivati i conquistatori islamici che hanno sottomesso le tribù del nord. Questa spinta di islamizzazione si è fermata nella zona centrale, che oggi ha un misto di religioni. Nel sud invece il cristianesimo è arrivato dall’Occidente, attraverso il mare».Oggi però questa convivenza tra religioni è a rischio.«Negli ultimi vent’anni c’è stata una spinta ulteriore di espansione dell’islam, attraverso l’occupazione dei territori. I musulmani hanno sempre governato il Paese, tranne alcune interruzioni. Adesso stanno sferrando un attacco spudorato, cercando di far passare leggi che favoriscono l’occupazione di suolo, con aggressioni fisiche e attacchi ai villaggi delle zone dove abitano i cristiani, per cacciare gli abitanti e occuparli. Questo accade anche in alcune zone del sud».Come si vive il Natale in questa situazione?«È molto complicato, soprattutto per i fratelli e sorelle cristiani che vivono nel nord. Ormai da anni la Messa di Natale non viene più celebrata nella notte, addirittura in alcune zone si celebra alle 2 del pomeriggio, per evitare i rischi di attacchi. Spesso le chiese pagano la polizia locale per avere controlli di sicurezza durante la celebrazione domenicale. Negli anni scorsi, quando sono andato a casa per il Natale, ho visto che è veramente triste perché il Natale non ha più quel sapore festivo che si vedeva intorno alle chiese, anche la partecipazione sta calando perché non tutti hanno il coraggio di andare alla Messa. Soprattutto nelle grandi festività c’è tanta paura, va ricordato che nel 2011 c’è stato un attacco a una chiesa proprio durante la Messa di Natale, morirono 39 persone».Una situazione che fa impressione pensando alle celebrazioni africane, che sono sempre festose, gioiose…«Esatto, per fortuna ci sono tanti sacerdoti che lavorano in mezzo alla gente, cercano di mantenere vivo lo spirito natalizio, lo spirito della festa, la fede, la gioia, portando avanti le celebrazioni. Ma è sempre più complesso, soprattutto nel nord. Diversi sacerdoti non abitano più nella casa parrocchiale, perché è troppo rischioso, abitano nella città più vicina, magari 3 o 4 sacerdoti insieme, e da lì vanno a fare il servizio domenicale. Diverse comunità quindi non hanno più un prete che risiede con loro».E lei, come vive il Natale?«Ho molto a cuore la situazione dei miei fratelli perseguitati, vivo il Natale con sensazioni miste. Essendo un parroco, cerco di mantenere lo spirito natalizio curando tutte le celebrazioni e le attività per i miei parrocchiani. Ma sempre con un pensiero a chi vive questo tempo nella paura, nell’incertezza, senza la gioia che il Natale dovrebbe portare. La mia intenzione è quella di condividere con la mia comunità qui a San Miniato le sofferenze dei nostri fratelli, creando un ponte di fraternità. Non si tratta di aiuti materiali, non è proprio questo il senso, l’obiettivo è il sentirsi in comunione, sapere che quello che viviamo qui, da un’altra parte del mondo c’è gente che lo vive in condizioni difficili».Sicuramente in Italia celebriamo il Natale in maniera distratta, senza apprezzare il fatto di poterlo fare con una libertà che altri non hanno.«Proprio questo, e non è una cosa da poco. Cerco di instillare nei miei parrocchiani la consapevolezza del dono che abbiamo. Il dono della fede e di un ambiente che ci permette di vivere con serenità questa fede, e sapere che questa stessa fede a qualcuno può costare la vita. Questo ci può fare apprezzare di più il dono di essere cristiani. Sentire vicini, farsi vicini a chi vive il martirio, attraverso la preghiera, attraverso messaggi, attraverso l’ascolto di voci e testimonianze».Il suo essere prete africano, cosa porta nel suo ministero di parroco?«C’è un fatto che spesso viene dimenticato: che oggi se noi africani siamo cristiani lo dobbiamo all’opera dei missionari che sono venuti da noi a portarci il Vangelo. C’è già questa comunione nella fede. E la presenza di noi sacerdoti africani in Italia la vedo come una testimonianza dell’opera dei missionari. È grazie a loro che i miei genitori si sono convertiti, mi hanno educato alla fede cristiana cattolica e io ho scelto di diventare sacerdote. Spesso invece i preti venuti da lontano sono considerati dei tappabuchi, visto che qui mancano i preti. Senza pensare a questa rete missionaria che crea comunione, crea fraternità. Un prete che viene da lontano è testimone della missionarietà della Chiesa: questo può incrementare la fede e le vocazioni».Lei è anche un musicista…«Più che musicista, sono un appassionato di musica, faccio animazioni musicali con il gruppo dei Blu Confine. Non sono musiche liturgiche, sono canzoni di animazione di ispirazione cristiana, secondo i generi musicali del momento per coinvolgere i giovani. È un modo per portare la dimensione festiva del cristianesimo».