Cultura & Società
Il Mistero Eucaristico del Santo Graal
di Carlo Lapucci
Tra le reliquie della Passione che hanno una lunga tradizione di culto le principali sono la Croce, la Colonna della flagellazione, la Corona di spine, i Chiodi, il Santo Sepolcro, la Sindone, il Velo della Veronica. Queste hanno avuto, più o meno attendibile, anche un’identificazione in un luogo, in un oggetto; altre come la Lancia di Longino hanno avuto una certa importanza, ma, mancando un’identificazione o per le troppe identificazioni, non hanno ricevuto gli onori che non sono mancati alla Corona di spine o alla Sindone.
La Coppa, il bacile, il piatto di Giuseppe d’Arimatea: il Santo Graal, vanta un destino singolare: non ha una citazione specifica nel testo evangelico e nasce dalla devozione dei fedeli, dalle testimonianze apocrife, eppure si costituisce come uno dei simboli più forti e rappresentativi di un Mistero che ha segnato per secoli la spiritualità occidentale.
Il mito del Graal prende le mosse dal racconto del Vangelo di Matteo (XXIII, 57-61) in cui si narra come Giuseppe d’Arimatea chiese e ottenne da Pilato il corpo di Cristo per dargli sepoltura. Secondo la leggenda il sangue sgorgato dalle membra del Salvatore sarebbe stato raccolto in un calice, o in un bacile, lo stesso recipiente usato da Cristo nell’Ultima Cena. A questo si aggiungono elementi del Vangelo apocrifo di Nicodemo e di altri scritti dello stesso tipo. Formatosi nel Nord Europa il Mistero assume anche altri temi provenenti da leggende celtiche.
Se si tolgono alcuni oggetti di culto locale (nella Cattedrale di San Lorenzo a Genova si trova fino dal XII secolo come la vera reliquia un sacro catino che fu conquistato a Cesarea nel 1101) additati e conservati come il Graal, è mancata l’identificazione clamorosa come è avvenuto ad esempio per la Colonna della Flagellazione, o la Corona di Spine, restando come la pura immagine simbolica. Tuttavia il bacile di Giuseppe d’Arimatea è la reliquia della Passione che costituisce da sola il nucleo di un mito cristiano per l’importanza assunta nella simbologia, nella mistica, nella letteratura del Medio Evo, costituendo l’oggetto della ricerca dei cavalieri della Tavola Rotonda: il Santo Graal.
Oggi comunemente si attribuisce al Medio Evo la caratteristica d’essere stato un periodo d’approssimazione, confusione, inesattezza, negligenza. In realtà l’analogia con il mondo mitologico ci lascia scoprire facilmente che nei romanzi medievali non si sta trattando di teoremi di geometria, ma di misteri. Quello che si vuol cogliere, tanto nella narrazione mitologica che in quella cavalleresca, non è la biografia precisa e documentata di Apollo o di Parsifal, ma il mistero inafferrabile che sta sotto queste figure e l’avvicendarsi dei racconti, delle imprese, delle caratteristiche riguardanti un personaggio non è che il tentativo di avvicinare quanto più possibile il nucleo sfolgorante del suo mistero, che mai potrà essere definito e raggiunto in maniera da poterlo contemplare direttamente. Di conseguenza l’affabulazione non è un difetto, ma una caratteristica di questa letteratura.
Per dare un minimo di unità alla materia possiamo rifarci alla produzione di Robert de Boron, poeta di cui non si sa quasi nulla, che alla fine del XII secolo scrisse il Romanzo della storia del Graal che si ricollega oltre che al Vangelo di Nicodemo, alla medievale Vindicta Salvatoris. Vi si narra come Giuseppe d’Arimatea, gettato in prigione, passi molti anni nutrito solamente dal miracoloso bacile capace di fornire ogni nutrimento e che compie numerosi prodigi. Liberato da Tito durante la conquista di Gerusalemme Giuseppe fonda in Oriente una comunità di monaci che ogni giorno celebrano il Graal intorno a una mensa, alla quale rimane sempre un posto vuoto che spetta di diritto al futuro custode e difensore del Santo Vasello. Inutile sottolineare come già si adombri sotto il rito e i simboli il Mistero pasquale, l’Ultima Cena e l’Eucaristia. Bron, cognato di Giuseppe d’Arimatea, è chiamato il Ricco Pescatore per un pesce prodigioso che egli riesce a pescare e che viene servito alla mensa dei monaci il giorno di una grande apparizione della reliquia. Questi, investito da Giuseppe quale difensore e custode del Graal e ricevutane la rivelazione del mistero, parte con il calice per l’Occidente.
Robert de Boron continuò la narrazione in un secondo poema, il Merlino, di cui ci è rimasto solo un frammento, ma possediamo una prosificazione completa. Il romanzo collega la storia del Graal a quella della cavalleria di Bretagna e di Re Artù, di cui Merlino non solo è stato maestro, ma rimane il mago e il nume tutelare della sua corte. È lui infatti che vaticina come un cavaliere del re sia destinato a operare la conquista del vaso sacro. Qui la storia si apre a ventaglio narrando le vicende del vari cavalieri che partono per la conquista che riuscirà solamente a colui che si conserverà integro da ogni colpa e puro da ogni peccato. Falliranno grandi campioni come Galvano, Lancillotto, Bohorot e anche Parsifal (che secondo altre versioni invece riesce nell’impresa), lasciando a Galaad la gloria. È lui infatti che toglie la spada dalla roccia e compie altri prodigi previsti da Merlino.
Lo stesso autore in un terzo romanzo, Parceval, conclude la lunga e ramificata vicenda con il racconto della conquista. Intanto la materia veniva sviluppata da molti altri autori anche di maggior valore, come Chrétien de Troyes (Perceval), mentre pullulano le trascrizioni i rifacimenti in prosa, le trascrizioni: La morte di Arturo, Giuseppe d’Arimatea, il Piccolo Santo Graal, il Grande Santo Graal (o Lancelot-Graal), La Storia del Graal, La Ricerca del Graal. In Italia il mito non ebbe grande diffusione: mancò l’attenzione dei traduttori, dei poeti, segno che nel nostro ambiente la materia era vissuta con altro sentire: il tema cavalleresco segue la linea delle opere di Andrea da Barberino, Pulci, Boiardo, Berni, Ariosto, Tasso. La materia religiosa invece s’incentra sul mistero dell’Eucaristia: lo riceve dal Nord l’impulso che si polarizza nella festa del Corpus Domini e lo coniuga con il Miracolo d’Orvieto e la sua magnifica cattedrale.
Analizzando la vicenda nei suoi tratti essenziali ci troviamo di fronte a un fatto fondamentale: la conquista del Santo Vasello, che corrisponde poi al raggiungimento della sua visione, si rende necessaria poiché la sua scomparsa ha reso infermo il sovrano, il Re Pescatore, che soffre d’una ferita incurabile e la sua terra è divenuta sterile e improduttiva. Tutto langue, tutto appassisce e muore privo di vitalità: solo il cavaliere che saprà trovare e conquistare il santo Graal scomparso potrà ridonare la salute al Re Pescatore che sta estinguendosi con il suo regno.
Occorre sbarazzarsi del nostro modo di leggere i testi per entrare in quello dei destinatari contemporanei di queste opere per vedere le cose narrate attraverso il simbolo, la metafora e l’allegoria, quando non addirittura l’anagogia.
Tutta questa vicenda, come spesso le narrazioni medievali, è una lunga allegoria di altri viaggi e altri itinerari, primo tra tutti quello dell’uomo nella vita e la ricerca di un senso e di una certezza che possa guidarlo. Il secondo elemento che si nasconde, e al tempo stesso si rivela, è il Mistero eucaristico: il Graal è veramente il simbolo della Coena Domini: è il vaso che contiene il corpo e il sangue di Cristo, che è capace di nutrire gli affamati, come Giuseppe d’Arimatea prigioniero, che viene onorato su una mensa. È immagine del cammino verso la Gerusalemme Celeste alla quale l’uomo deve giungere spoglio di qualunque desiderio impuro, perfettamente liberato da ogni attaccamento al male e definitivamente proteso verso la Vita Eterna.
Già alcuni protagonisti dell’impresa pensano che il Graal come elemento concreto neppure esista comprendendo che la sua è solo la forza spirituale e la realtà trascendente che rappresenta.
Vi sono periodi della vita degl’individui e tempi dei popoli (e la nostra epoca lo è quanto mai altre sono state) nei quali le forze dello spirito si affievoliscono e con loro ogni fede, ogni fiducia, ogni vitalità scompare sotto il grigiore dell’inutilità. Sono i tempi dell’egoismo satanico, dell’individualismo cieco, della mancanza di fiducia in chiunque, della fede nella realtà materiale, nel benessere, nel vantaggio e nel profitto e nella corsa dissennata verso una delirante visione di felicità.
Vi sono epoche, e periodi di una vita, in cui tutto cade come sotto un malefico incantesimo: la vitalità si arresta, la fecondità si chiude, la comunicazione tra gli uomini e di questi con le cose scompare, tutto diventa grigio, sporco, inutile. Il mondo è come sempre davanti all’uomo ma lui non lo vede, non lo sente, non è capace di amarlo, per quanti sforzi possa fare a cercare ragioni dentro e fuori di se stesso.
Una colpa nascosta, segreta, inconfessabile, perché l’uomo proprio non vuole rinnegarla, è la responsabile del maleficio, della desolazione immensa che pervade gli uomini e la terra del Re Pescatore, ferito della stessa piaga: è la volontà diabolica di separarsi del proprio principio, è l’idolatria dell’io che genera un cieco individualismo. Mentre l’uomo leggeva ovunque le vestigia di Dio, udiva la sua voce che lo chiamava continuamente a se, ora non vede che se stesso riflesso in tutte le cose e la luce divina è scomparsa. La conquista del Graal è la lotta contro questo accecamento, individuale o collettivo, che nasconde le realtà spirituali e chiude l’uomo in un polveroso, oscuro labirinto dove la vita non è viaggio, ma inutile ripetizione, godimento effimero di piaceri avvelenati sempre dalla morte. Inutilmente il Re Pescatore cerca nelle acque il pesce della Vita e della Salute.
Pure nella desolazione tutto è pervaso dal Graal e nella miseria si crede, si sa di lui, si conosce il suo potere, vi si passa vicino, ma non si scorge, non si avverte. Ai cavalieri riuniti nel banchetto appare, ma si presenta velato e soltanto la visione totale del Mistero può generare la salvezza. Per questo Parsifal e Galaad partono alla sua ricerca.
Questa condizione di presenza e di assenza è come quella di chi entra in una casa dove è morto chi vi abitava e vi ritrova tutte le cose della sua vita che lo ricordano: gli oggetti, gli ornamenti, gli abiti, i ninnoli, gli arnesi e insieme alla memoria dei suoi gesti, della voce, degli sguardi, sente che tutto quel mondo, quegli oggetti, quegli angoli non sono che gusci vuoti, spenti, inutili, privi ormai di senso, dai quali la vita è fuggita, cose mute e indifferenti come le altre cose del mondo, perché colui che era la loro vita non c’è più.
La terra desolata è non riuscire a vedere Dio oltre se se stessi, oltre le cose e il mondo, è un labirinto oscuro in cui si aggira la mente fuggita da Dio, come il Figliol prodigo dal Padre. Tutto c’è, ma nulla esiste, tutto si percepisce ma non il suo valore, per cui il mondo langue nell’attesa di colui che sappia rompere l’incantesimo, infrangere il diaframma di opacità che s’interpone tra l’uomo e ogni realtà. Il cavaliere destinato a quest’impresa altri non è che ciascun essere che voglia trovare un senso a se stesso e alla vita: solo con questa ricerca l’esistenza assume un senso e cade il maleficio diabolico della morte, che è quello di: credere che tutto sia nulla, nulla abbia un valore, e nessun valore valga la pena di una ricerca. Ogni cavaliere cadrà nell’impresa e non avrà la visione suprema, meta che raggiungerà, solo e per tutti, coinvolgendo l’umanità intera nel destino di salvezza, il più grande cavaliere che vince la morte: Cristo, Galaad nell’allegoria.
Siamo all’inizio degli Anni Venti: c’è uno smarrimento totale di fronte alla scomparsa di valori e l’inaridirsi della vita sotto tutti gli aspetti. Nasce in alcuni il sospetto, in altri la convinzione, che l’Occidente abbia sbagliato strada. Il pensiero ritorna all’irrazionalismo, a Schopenhauer, a Nietzsche, intendendo esasperatamente l’irrazionalità, non come presa di coscienza dell’impossibilità di comprendere la vita con la ragione e governarla, non come abbandono a un ordine più alto e più grande, ma come il gesto nevrotico di chi si lancia contro la muraglia, di chi spera nella sacralità della violenza, dell’azione per se stessa, del vitalismo non del sangue, ma dell’egoismo. Si pensa che la salvezza sia nel proseguimento cinico del colonialismo, della lotta per la vita tra i popoli, seme di guerra, intolleranza e violenza, comunismo, fascismo, nazismo.
La scienza, nella forma deteriore di scientismo, ha dichiarato illusione la religione, il sentimento, la trascendenza, la tradizione e tutto è caduto sotto la sua mannaia. Due ideologie si sono impadronite dell’economia e la elevano a ordine del mondo, la vogliono governata da regole ferree, sicure, affidabili, la vogliono misura di tutte le cose, schiacciando l’individuo sotto l’inutile macigno dei ritmi di produzione sempre più disumani. Capitalismo e marxismo celebrano i loro fasti e preparano orge di sangue e di sofferenza. Nel mito cristiano del Graal T. S. Eliot costituisce il centro del suo poema. La terra desolata costituisce una sintesi poetica della situazione spirituale, psicologica, morale dell’uomo che vive oggi nella civiltà occidentale in una crisi e in un disorientamento che non lasciano intravedere uscita. È al tempo stesso un caposaldo riconosciuto della poesia del Novecento. Si tratta di un’opera nella quale si riflette l’intero travaglio della modernità, la ricapitolazione del mondo passato che ha portato la vicenda umana alle determinazioni e alle contraddizioni di questo tempo. Tutta la cultura dell’Occidente è riassunta in una fulminea sintesi, la civiltà messa in discussione e analizzata, descritta nella condizione imposta all’essere umano che vive negli effimeri paradisi e negli stabili inferni creati dal materialismo, dalla rivoluzione industriale, dalla logica del progresso e del profitto, sotto le leggi dell’economia. Il Re Pescatore è il nodo simbolico che può rappresentare una persona (il papa), una facoltà umana inaridita (l’amore), l’uomo vuoto di questo tempo e tutto questo insieme, ma più ancora il punto fondamentale di un asse cosmico deragliato che sta trascinando tutto nella rovina e nel quale possono rientrare infinite manifestazioni.
È lo Spirito che deve tornare a pervadere la materia e nulla può ottenerlo se non con la preghiera, l’invocazione del Veni Sancte Spiritus: «Lava ciò che è immondo, irriga ciò che è arido, sana quello che è ferito».