Cultura & Società
Il miraggio degli automi
di Carlo Lapucci
La concezione antica dell’edificio del luogo sacro aveva aspetti che oggi non ha più. Nei secoli di barbarie e di miseria ha rappresentato il centro della vita delle comunità dove era raccolto il sapere, l’organizzazione, l’amministrazione, la memoria, la medicina e tutto quanto non era disponibile altrove. Da questo è venuta forse la tendenza a dotare chiese e monasteri di strumenti, documenti e quanto potesse essere utile o riguardare la società che in queste avevano il loro centro e il punto di riferimento.
Tale spirito è durato a lungo e in parte dura ancora: dalle campane e dalle meridiane che dalle chiese davano l’ora ai fedeli, segnando i momenti della preghiera, alle lapidi che segnano i principali eventi storici, ai libri parrocchiali che documentano le nascite e le morti degli abitanti delle parrocchie, tutto proveniva o era segnato nello spazio sacro e anche oggi se si vuole sapere qualcosa d’importante di una zona o dei secoli passati bisogna ricorrere a quei documenti.
La chiesa era dunque concepita anche come un compendio della vita religiosa e civile, uno scrigno che raccoglieva quanto di più prezioso ed essenziale era considerato necessario per la vita. L’arte spesso presentava compendi straordinari di vicende bibliche, nei quali comparivano usi, riti, lavori, abiti, volti, paesaggi del tempo. Anche l’architettura era, oltre a elemento di edificazione e devozione, strumento di comunicazione e di documentazione che in gran parte rimane ancora attraverso strutture simboliche, allusive e soprattutto la scultura conserva nei capitelli, negli amboni, nei bassorilievi, nei fregi i segni che a un’attenta lettura rivelano la vita e il pensiero del tempo.
Anche altri elementi si insediavano nello spazio religioso, spesso estranei allo spirito dei luoghi e uno di questi erano meccanismi volti più che altro a segnare il tempo: i grandi orologi animati, che richiamavano tutti l’idea d’un congegno eterno, un moto perpetuo.
Manufatti assai deperibili gli antichi automi si sono conservati nei luoghi di culto e ne abbiamo esempi celebri come il campanile del Duomo di Messina, il celebre orologio di Strasburgo, ma soprattutto le macchine che erano impiegate per celebrare le feste con artifici, come far uscire l’immagine di Cristo dal sepolcro il giorno di Pasqua.
Naturalmente l’automa serve a creare meraviglia, disorientare, stupire e non di rado a gabbare i sempliciotti per simulare la possibilità di dominare forze soprannaturali, magiche e anche miracoli e vaticini. L’uomo non abbandonò mai questa pratica, anche se si rivelò sempre infruttuosa, tranne che negli usi truffaldini, sia per il gusto di stupire sia per altre ragioni in particolare una sorta di competizione col divino, la forza che ha costruito il mondo come automa e infinità di automi.
La potremmo chiamare la sindrome di Geppetto questa voglia che assilla soprattutto gli uomini di scienza che ancora vogliono ricreare in laboratorio la vita, scoprire il segreto della cellula, manipolare il plasma umano come se fosse una materia qualunque.
La scienza ha ravvivato negli uomini questo pizzicore d’impadronirsi dei segreti della vita. Nessuno si è chiesto chi avesse messo nella testa di Geppetto la voglia di costruirsi un figliolo più che naturale, una creatura delle proprie mani un burattino meraviglioso che sappia ballare, tirare di scherma e fare salti mortali. Perché, viste anche le sue magre sostanze, non seguire la via più semplice, quella tradizionale che è anche la più piacevole, almeno sul principio?
Si diceva che gli antichi maghi come Salomone avessero servitori invisibili, creati da loro, che obbedivano a ogni loro comando con capacità prodigiose. Poi si passò dalla magia alla tecnica e i re come Minosse amarono tenere alla corte architetti come Dedalo che fabbricavano specchi magici, cose ingegnose e animali meccanici, come la famosa colomba che volava da sola costruita da Archita di Taranto.
Molto interessanti e piuttosto ignorati sono gli automi sonori, sui quali l’uomo ha astrologato a lungo prima di arrivare al fonografo e ai sistemi di riproduzione del suono. Papa Silvestro II, vuole la leggenda, costruì una testa parlante. Rabelais nel 1548 nel libro di Pantagruel (IV) narra che in una zona fredda del mare le parole non appena uscite dalla bocca gelavano nell’aria e restando intatte finché al sopraggiungere del caldo si sciolgono e vengono udite da tutti. La panzana è divenuta un luogo comune e anche nel Barone di Münchhausen si ritrova opportunamente variata. Sulla fine dello stesso secolo un ingegno italiano, un tale Posta, stava avvicinandosi a gran passi al fonografo: conservava la voce umana facendo cantare davanti all’apertura di un tubo di piombo che chiudeva poi improvvisamente e all’apertura si sentiva la voce che si liberava intorno.
Migliore ancora era il metodo usato dagli Uomini Azzurri e le Donne Verdemare che il Capitano Vosterloch, a quanto si legge nel Courrier véritable del 1656, dice d’aver incontrato nelle sue scorribande oceaniche. Questi parlavano ad alta voce vicino alle spugne che mandavano ad amici e parenti lontani. Questi, strizzandole dolcemente, ne facevano uscire le parole ricevendo il messaggio col piacere di sentire la voce.
In quei lunghi secoli si favoleggiò del poeta Virgilio, facendolo diventare un mago immortale, o comunque esageratamente longevo, costruttore di straordinari automi, il più famoso dei quali fu la mosca. Napoli, dove risiedeva, era afflitta dal flagello delle mosche, che calavano a nuvole sulla città. Virgilio fabbricò una mosca di rame, grossa come una ranocchia e la pose sopra una delle porte di Napoli. Per tutto il tempo che vi rimase nessuna mosca entrò mai dentro la città.
Poi siccome le cicale cantavano anche di notte e i napoletani non potevano dormire, Virgilio fece una grossa cicala di rame che in poco tempo cacciò fuori delle mura tutte le cicale che la infestavano. In casa si era fabbricato due automi con un metallo a tutti sconosciuto. Questi quando entrava nella stanza battevano dei martelli sopra un’incudine producendo suoni così dolci e melodiosi che gli uccelli si fermavano davanti alle finestre ad ascoltare.
Fu un papa, il francese Gerberto d’Aurillac, nato da una povera famiglia dell’Alvernia e divenuto pontefice Silvestro II nel 999 a costruire un vero androide. Dopo gli studi nel monastero benedettino della sua città fu mandato in Spagna, a Toledo, allora centro di maghi e arti magiche, conobbe la cultura araba, mostrando una sterminata cultura in ogni ramo del sapere, cosa che contribuì molto alla leggenda che fosse un mago. Una simile impresa è attribuita anche ad altri maghi: Ruggero Bacone, Arnaldo da Villanova, Enrico di Voillena e il rabbino Löw. Gerberto costruì una testa umana parlante che rispondeva alle domande che si facevano e conosceva tutte le cose dicendo il vero. Pare che gli predisse anche la propria morte. Alcuni vogliono che la testa di bronzo fosse quella della statua che si trovava al Campo Marzio a Roma.
Altrettanto fece secondo la leggenda Alberto Magno, vissuto tra il 1193 e il 1280, domenicano, vescovo di Ratisbona, grande sapiente e filosofo, teologo, astronomo, conoscitore di molte discipline, magia, alchimia, astrologia, studioso delle pietre e delle piante. La grande sapienza gli giovò il titolo di Dottore universale, insegnò a San Tommaso d’Aquino ed è santo della Chiesa. La più celebre sua impresa magica è la costruzione di una automa che si chiama comunemente Androide di Alberto Magno. Alberto avrebbe costruito un automa parlante che teneva in casa e al quale faceva svolgere lavori e faccende, ma soprattutto gli serviva quale oracolo, rispondendo in maniera infallibile ad ogni tipo di quesito egli gli proponesse. Venuto nelle mani del discepolo Tommaso d’Aquino questi si convinse che fosse opera diabolica, per cui, afferrata una mazza, lo ridusse in frantumi.
Tra le ambizioni dell’alchimia, insieme alla pietra filosofale e l’elisir di lunga vita, c’era anche quello di creare la vita per mezzo di operazioni di laboratorio di tipo alchimistico magico, ripetere in qualche modo l’opera di Prometeo. Nacque il progetto di creare, sia pure in dimensioni ridotte, l’essere umano, detto appunto omuncolo, che spesso si trova rappresentato dentro le ampolle. Un gran numero di alchimisti si dedicò a questa ricerca e si favoleggia che uno di loro Julius Camillus ci sia riuscito e Amatus Lusitanus asserisce d’averlo visto grande come un pollice dentro una fiala. Nel XIV secolo uno dei luoghi di concentrazione di stregoni e delle streghe era il monte Brocken la cima più alta dello Harz. Lassù avveniva la trasformazione nella notte di luna piena più vicina al solstizio d’estate. Pronunciando le debite formule una capra si trasformava in un giovane di grande bellezza.
La modernità alla vecchia chimera medievale aggiunge qualcosa di diabolico: non si tratta di potenziare l’utilità, allungare la vita, fermare l’orologio sulla giovinezza, ma di uscire dai limiti dell’umano, o quanto meno da quelli segnati dai millenni: impadronirsi della formula della vita. Si tratta in parole povere di sostituirsi a Dio, di farne a meno, come intesero fare Adamo ed Eva ( Se mangerete di quel frutto sarete simili a Lui), come pensarono gli antidiluviani, i Titani che tentarono la scalata dell’Olimpo, gli uomini di Babele, Ulisse che forzò le Colonne d’Ercole. Tutto, dicono le leggende, finì in un disastro.
A questi sogni sono collegate una miriade di speranze o convinzioni che purtroppo si ritrovano annidate dovunque, soprattutto, nella versione peggiore, nei laboratori dei lager nazisti. Dal siero dell’eterna giovinezza, all’immortalità, alla vittoria su ogni malattia, alla manipolazione spregiudicata di ogni cellula, alla creazione di esseri da cui prelevare organi, o da adibire come animali ai lavori servili: cose che non sono poi novità per gli esseri umani. I film sono pieni di questi incubi, primo tra tutti Metropolis di Fritz Lang (1926). Mettere nelle mani dell’uomo tanta potenza spaventa, quando si sa che nella storia l’essere umano non si è fermato davanti a nessuna infamia.
Nel caso di riuscita di un simile prodigio rimarrebbe il problema del rapporto tra l’uomo e le sue creature, gli scimpanzuomini. Il bellissimo film Blade Runner di Ridley Scott (1982) ce lo presenta molto drammatico, anzi terribile: la ribellione dei creati ai creatori, con un finale tragico, anche se velato da un finalino di speranza.
Vicino a Firenze abbiamo un luogo dove si è cercato qualche secolo fa di ricreare questo sogno: lo volle in granduca Francesco I e l’artefice fu il Buontalenti. Purtroppo né di questo tesoro, né dello scrigno che lo conteneva è rimasta traccia: della villa medicea di Pratolino non si hanno che le rovine. Eppure fu una meraviglia di cui in Europa tutti parlavano: Montaigne la visitò e la descrisse nel suo Viaggio in Italia. Ne abbiamo una descrizione accurata fatta sui documenti e le memorie per opera di Giovanni Rosini nel romanzo La signora di Monza, che scrisse in gara con I promessi sposi.
Grande cultore delle arti e dell’archeologia Rosini ne dà una ricostruzione attendibile e una descrizione partecipata e piacevole, avendo visto quanto restava dell’edificio distrutto nel 1814. A cominciare dal Colosso dell’Appennino tutta la villa e il parco erano un susseguirsi di meraviglie dove le acque e i getti simulavano alberi, piante, oggetti, giocando con gli zampilli e i riflessi del sole a creare colori ed effetti meravigliosi.
La parte veramente magica erano le grotte nel parco e sotto il palazzo, fatte d’immense volte. Incrostate di spugne, piene di nicchie, ospitavano figure umane e di animali riprodotte nei loro movimenti: l’arrotino che girava la ruota, un garzone che aguzzava un ferro, un frantoio riprodotto al completo con animali e operai, una fabbrica di stoffe, e poi mostri, grottesche, mascheroni, arpie che gettavano acqua, anitre, animali vari, puttini semoventi e la ninfa Galatea che appariva avanzando verso gli spettatori. Erano appunto la Grotta di Galatea, la Grotta della Stufa, la Grotta del Tritone, la Grotta della Samaritana fatte per gioia e delizia del Granduca Francesco e della sua amata Bianca Cappello.
Di questo paradiso terrestre, come di quello biblico, non è rimasto nulla e curiosamente, anche i suoi abitanti, come i predecessori, non fecero una bella fine.
Era questa grotta destinata nell’estate ai segreti conviti del Granduca Francesco con la Bianca Cappello. Una tavola in marmo di forma ottagona, la quale indicava il numero ristretto dei favoriti, che vi poteano essere ammessi, sorgeva nel mezzo. Posava sopra di una colonna e aveva nel centro una vaschetta, con un sottil cannello in fuori da cui zampillava l’acqua per rinfrescar l’aria ne’ caldi più affannosi e per servir all’ornamento dei conviti.
Per mezzo di macchinette che si posavano sopra il cannello, l’acqua scaturendo con impeto e riempiendone i vuoti, veniva a formare, servendo di Trionfo alla tavola, le più curiose e mirabili cose. Non dirò d’un Giglio, arme di Firenze, ne delle Palle, arme medicea, come di rappresentanze comuni. Ma, ora potevasi in mezzo un vascelletto e l’acqua ne componeva le vele, i coraggi, le bandiere. Ora un picciol giardino, e l’acqua ne formava i ruscelli, le foglie degli alberi, le brine dell’erbe. Ora un palazzo, e l’acqua imitava i cristalli delle finestre e il fumo vaporoso dei camini. Ora un’aquila e l’acqua ne facea stender le penne per prendere il volo, ed alzare il collo, e muovere gli occhi, quasi fissandosi incontro ai reggi del sole
Il Buontalenti, nella macchina impropriamente detta della Samaritana, aveva superato se stesso. Era in quella rappresentato il passaggio degli uomini dalla barbarie alla civiltà.
Nella foto, il robot costruito all’Università di Pisa