Arezzo - Cortona - Sansepolcro

Il mio Libano: «Le nozze di mia figlia con la guerra alle porte»

Siamo arrivati nel Paese dei cedri da Sansepolcro nonostante da tre notti gli aerei israeliani bombardassero il sud e i quartieri sciiti di Beirut. E’ l’una di notte di sabato 15 luglio. Il prete maronita celebra il matrimonio di Costanza e Nehmè nella chiesetta di famiglia dei Suaid. L’ambasciata italiana, contattata all’ora di cena, aveva declinato ogni responsabilità se il piccolo gruppo di parenti non avesse accelerato il matrimonio. Così in piena notte viene celebrato il sacramento secondo il rito cattolico-maronita.Ore 1.00 in Libano. La chiesetta di Notre Dame de Bir el-Ait è una forte costruzione di pietra calcarea bianca. I presenti, arabi e italiani, entrano tutti, una cinquantina di parenti e amici. Il presbiterio è pressato dagli sposi, su due poltroncine rivestite di stoffa bianca e dai testimoni: per Costanza la zia Stefania e la sorella Caterina; per Nehmè il fratello Wissam, professore all’università maronita di Baalbek, e Alessandro, lo zio delle sposa. L’omelia viene pronunciata in due lingue: prima in arabo per i parenti dello sposo e poi in francese, per gli italiani.Ore 2.10. Fuori dalla chiesetta. A piedi, gli sposi in testa, nel buio della notte, il corteo nuziale attraversa la strada asfaltata e raggiunge la casa dei Suaid. Le invitate più giovani hanno strappato le rose del giardino; mentre camminiamo gettano i petali sul capo degli sposi. Costanza, attaccata al braccio di Nehmè, nonostante la situazione incredibile, sorride: davanti al cancello lo sposo la prende in braccio e la fa entrare. Sicuramente, in questo momento, da qualche parte di Beirut cadono bombe. Nel salone della festa di nozze applausi e sorrisi. Questi, però, sono forzati, soprattutto per i genitori di Nehmè. Ora comincia la fuga, verso l’ambasciata d’Italia. Bisogna andare. Abbraccio il signor Suaid, invito la signora Nawal (Natalia) in Italia. I fratelli e i cugini di Nehmè caricano gli italiani nelle auto e giù per la strada che dalla montagna scende a Junieh, la cittadina cristiana a nord di Beirut. In albergo la preparazione delle valigie. Alle 5 dobbiamo essere in ambasciata.Ore 4.30. Dalla terrazza della camera osservo nel buio il monte che disegna la baia di Beirut. L’unico rumore che avverto è lo sciabordare del mare sugli scogli. Sembra impossibile che sia una notte di guerra. Eppure c’è la guerra. All’improvviso un lampo enorme sale più alto della gobba del monte: rosso in basso, giallo oro in alto. Un attimo. Ma nessun rumore, nessun boato.Ore 5.20. I taxi corrono sull’autostrada deserta verso sud. La città scorre oltre i finestrini sulla nostra destra. In lontananza, sul mare, la grande nave israeliana che blocca il porto. Prima o poi sparerà, se non lo ha già fatto. Usciti dall’autostrada ci inoltriamo nelle vie aggrovigliate di un quartiere musulmano. Casupole, rovine. Poi si sale la collina. Un fumo nero incombe sulla nostra testa. Ecco l’ambasciata. «Il gruppo del matrimonio?». «Anche lo sposo?». Tutti dentro: 19 persone. Ora siamo in Italia. La guerra è di là da quel cancello.Ore 9.00 sui bus dell’ambasciata. Valigie e bagagli a mano: tutto con noi, nei nove bus organizzati dall’ambasciata. Costanza fa tenerezza: non ha lasciato per un momento il sabato porta-abiti con il vestito da sposa. Non lo mollerà per tutte le 40 ore dell’evacuazione. Sembra che sia cominciato un grande esodo di popolo dal sud. Ieri aerei israeliani hanno sorvolato Beirut lanciando volantini: abbandonate le vostre case. Nehmè è tranquillo, sostiene che il Libano cristiano non sarà bombardato. Il convoglio dei pullman si muove. In testa la polizia. Su tutti i mezzi le bandiere italiane.Ore 10.24. Bienvenu au Liban du nord, annuncia un tabellone stradale poco prima di Tripoli. Già, benvenuti. E dire che quel po’ di Libano che abbiamo potuto vedere è splendido. Ma il verde scema man mano che ci inoltriamo verso nord.Ore 12.30 alla frontiera. La barriera fra Libano e Siria viene raggiunta, ma solo dopo 7 ore sarà aperta. Sembra quasi che i siriani vogliano ostacolare in tutti i modi il passaggio. Cercano soldi. Vogliono speculare sui 450 occidentali in fuga. Alla fine, dopo un’interminabile trattativa, l’ambasciata paga. Per la toponomastica il sito di frontiera si chiama «Arida». Niente di più appropriato. Il sito è squallido e deprimente. Dai minibus alla nostra sinistra, sbarcano di continuo bambini, donne, uomini di ogni età, masserizie di ogni tipo e di ogni foggia. Molte donne sono velate. Famiglie in fuga, anche a piedi. Intorno ai tanti mezzi gente, valigie in testa, pacchi trascinati con sforzo, occhi arrabbiati, altri rassegnati, molti tristi.Ore 20.00 in Siria. Siamo in Siria. La strada asfaltata dalla frontiera a Tartous è un impietoso squarcio sulla miseria. La colonna italiana procede a passo d’uomo. La via è piena di un’umanità disordinata che, a piedi, a grappoli familiari o di clan, trascinano con fatica di tutto. Poi lungo i bordi la miseria siriana: poveri agglomerati dove scorre la vita di una popolazione contadina che strappa qualcosa a campagne aride. Tutti sono per strada, attoniti, a guardare l’esodo di questo popolo, dei nostri mezzi.Ore 21 all’aeroporto di Latakia. Il convoglio arriva all’aeroporto. Due C130 fanno la spola fra la Siria e Larnaka a Cipro. Il personale dell’unità di crisi giunto da Roma, assieme all’ambasciata, cerca di fare ordine e di dettare criteri di priorità. Tutti saranno evacuati, ma ci vorrà l’intera notte.Ore 2.25 in volo. Il gruppo del matrimonio se ne sta in disparte: vuole essere imbarcato unito. Il cancello si apre; è il nostro turno. Entriamo, ma non siamo tutti quando il cancello si richiude. Caterina si agita, piange: va dritta da una delle signore dell’unità di crisi a dire che siamo rimasti in fondo per restare uniti; che la nostra unità, come gruppo, è ciò a cui teniamo di più. La signora le chiede di indicare chi è rimasto fuori. Caterina si precipita alla vetrata e mostra chi è restato nel salone. Ora siamo tutti e 19 nella pista: la navetta ci porta verso il C130. Due militari attendono nella pancia dell’aereo. All’improvviso tutte le tensioni di questa incredibile giornata svaniscono. Nel velivolo è buio: i flash dei telefonini scattano per immortalare gli oggetti dentro la pancia e le singolari poltrone di plastica arancio che normalmente reggono i paracadutisti. Il C130 viene mosso da quattro eliche, il rumore è assordante ma non insostenibile. Il C130 comincia a rullare, si lancia sulla pista e stacca.Ore 3.05 a Larnaka. Siamo allo sbarco. Lungo i corridoi le ambasciate europee hanno posto i loro banchetti; ogni banchetto una bandierina. Fra i primi evacuati non tutti sono italiani; anzi, molti sono i cittadini comunitari. Il gruppo italiano, di gran lunga il più numeroso, viene accompagnato in una grande sala d’aspetto. Alle 4 viene imbarcato in un Air One che atterra a Roma alle 7.30.Ore 8.05 in Italia. Finalmente Fiumicino. Un poliziotto in borghese si avvicina e chiede di cosa ho bisogno; poi mi indica una sala dove la protezione civile ha preparato un ristoro: caffè, te, biscotti, acqua, un cestino viaggi. Mi ricordo che non mangio dalla notte del matrimonio. Al cancello d’uscita ecco l’assalto delle televisioni. Caterina grida ai cameraman: «Da lei! E’ quella che si è sposata» Costanza e Nehmè sono circondati dagli operatori. Nehmè è incredulo; Costanza, solare, parla: «Le bombe non mi hanno impedito di sposarmi», e mostra la fede nuziale. Ora a casa. Il Libano? Ritorneremo. Per riprendere il discorso dove siamo stati costretti ad interromperlo.di Enzo Papi