Vita Chiesa

Il mio Giubileo all’Impruneta

Dubito di essere uno storico: al massimo, sono un professore di storia. Ma ci sono poi alcune attività «collaterali» che pratico non senza una certa faccia di bronzo, pur dubitando di saperle fare. Ad esempio il giornalista o il romanziere o comunque lo «scrittore della domenica». Come tale, ho al mio attivo (stavo per dire: sulla coscienza) un paio di romanzi gialli, un «racconto lungo» esoterico-iniziatico e tre romanzi storici almeno editorialmente fortunati ai quali – come mi dicono accade anche agli scrittori veri – sono molto affezionato.

Anzi, a dire la verità lo ritengo il mio romanzo migliore. È un racconto di genere storico-«giallo»-dark ambientato nei primissimi anni del Quattrocento tra Firenze, Segovia, Gerusalemme e Samarcanda, che segue passo passo un’autentica grande fonte – il diario di Ruy Gonzalez de Clavijo, ambasciatore del re di Castiglia presso il terribile Tamerlano – alla quale intreccia una storia avventurosa e cavalleresca di passione e di vendetta, la storia di un misterioso assassinio e di un lungo itinerario dall’Europa attraverso il Mediterraneo e l’Asia lungo la Via della Seta. L’eroe di questo racconto è Vieri de’ Buondelmonti, giovane immaginario rampollo d’un gran casato fiorentino, i Buondelmonti appunto, fondatori e patroni della splendida Certosa del Galluzzo e fin dal X-XI secolo signori feudali e fondiari di buona parte della Val d’Ema (è dalla collina di Montebuoni – oggi Vallombrosina -, sulla  quale sorgeva la rocca avìta, che essi presero il nome appunto di Buondelmonti).

Ma i Buondelmonti avevano il loro centro sacrale, prima di fondare la Certosa, nell’antica pieve dell’Impruneta subito a sud di Firenze, presso la Via Chiantigiana. È lì che venivano sepolti: e lì che nacque nel tempo la venerazione di una misteriosa icona della Vergine – ritrovata nel terreno ma, si disse, arrivata galleggiando per acque e pozzi sotterranei – che mantenne la sua signoria sull’elemento liquido: al punto che, divenuta Patrona di Firenze, la si portava processionalmente nel capoluogo ogni volta ch’esso era minacciato dall’Arno. Non è strana questa devozione: il territorio imprunetino è tutto percorso da acque sotterranee che spesso affiorano in pozzi profondi e sappiamo che là, fino all’età etrusca, si praticava un culto delle sorgenti «ctonie» (vale a dire appunto celate in grotte e anfratti in profondità) e si tacevano sacrifici. Idoletti bronzei simili a quelli del «Lago degli Idoli» presso il Falterona sono stati rinvenuti sotto la chiesa fino dalla sua fondazione. C’è forse una continuità topografico-sacrale tra quell’antico culto e quello cristiano.

Ma l’Impruneta è qualcosa di ancora più importante per i fiorentini, ancora oggi: è il luogo della Fiera, che noi chiamiamo appunto il «Fierone». Il 18 ottobre di ogni anno, per la festa liturgica dell’evangelista Luca – l’allievo di san Pietro, in fama di essere anche pittore e in quanto tale di aver ritratto la Vergine -, si usava tenere un grande mercato (la feria, appunto) che gli abitanti di Firenze consideravano la più importante insieme a quella  dedicata all’altra Madonna protettrice di Firenze, la Santissima Annunziata. All’Impruneta in particolare, visto che la solennità festiva cadeva subito dopo la vendemmia e prima della svinatura, vi si celebrava secondo la tradizione la «Festa dell’Uva» con grandi carri funambolescamente trainanti immensi architetture di fiaschi di vino  accompagnati da gagliarde mangiate dei due piatti trofeo e insegna delle principali attività  del luogo: il vino appunto e soprattutto l’uva, con i chicchi della quale generosamente innaffiati di vino e di zucchero si confezionava uno strepitoso dolce, la «Schiacciata con l’Uva»; e il «peposo alla fornacina», uno spezzatino di vitello diabolicamente condito di una spaventosa quantità di pepe e quindi cotto, sempre nel vino rosso, negli stessi forni  nei quali gli imprunetani ancor oggi confezionano una delle migliori terracotte del mondo, il celeberrimo e pregiato «Cotto dell’Impruneta».

Ma è proprio il peposo di vitello (o di giovane manzo) a metterci sulle tracce della più autentica e profonda origine del «Fierone di mezz’autunno». Non c’è Fiera dell’Impruneta che si rispetti senza il suo grande mercato di bestiame, uno dei più noti della Toscana. Lì si compravano e si vendevano i bovini: e fatalmente se me mangiava qualcuno. L’Impruneta si situa difatti esattamente a metà strada tra il Pratomagno, dove le mandrie trascorrevano fresche estati, e la Maremma, dove scendevano per svernare. Dopo la grande, sacra sosta dell’Impruneta sotto il manto protettore della vergine le bestie e i loro mandriani procedevano verso le bassure paludose della «Maremma amara» insieme con gli imprunetani più poveri, quelli che facevano il nero maledetto mestiere dei carbonai. «Tutti mi dicon Maremma Maremma…».

Amo l’Impruneta. Sono un ragazzo di Porta Romana, per me la Chiantigiana, gli Scopeti, tutta l’area tra la Valdema e la Valdelsa non hanno segreti. Quando eravamo ragazzi, il vecchio sor Giulio Bucciolini veniva spesso in paese per la Fiera, a rivedersi l’operetta in Toscana celeberrima da lui composta, «La Fiera dell’Impruneta» appunto. Più tardi, quando per alcuni anni dovetti tenere l’insegnamento di antropologia culturale all’Università, usavo celebrare con pedagogisti e maestri la figura di un’imprunetana eccezionale, la maestra Maria Maltoni, il cui metodo d’insegnamento è stato per anni oggetto di studi. E finché è vissuto solevo, alla domenica, venir alla basilica per assistere alla messa celebrata dal grande, terribile arciprete monsignor Giulio Cesare Staccioli, che avevo avuto come inflessibile professore di religione (uno che ci faceva studiare sul serio la storia sacra e le scritture) alle medie e al ginnasio quando era ancora parroco ai Santi Quirico e Giuditta vicino al Galluzzo: e con lui ho gustato certe ottime bistecche, quelle di Bibe al Ponte all’Asse di montaliana memoria, che ricordo ancora quasi con commozione.

E mi piace ancora ricordare quando il vecchio monsignor Staccioli, che negli Anni Cinquanta ci leggeva il Don Camillo in classe e non si poteva quindi certo dir di simpatìe filocomuniste ingaggiò una dura e coraggiosa battaglia anticonformista affinché dal tetto della Casa del Popolo dell’Impruneta – ora che il comunismo era passato – non fosse tolta la grande Stella Rossa illuminata, di staliniana memoria. «È parte della storia di questo popolo, di questa gente – diceva -: era cara a gente buona e coraggiosa, che ha lavorato e combattuto per tutta la vita. La libertà chiede rispetto per tutti: senza rispetto, non c’è libertà». La Stella Rossa, grazie a Dio, c’è ancora: e risplende fulgida di notte. Per motivi analoghi don Giulio era contrario all’obliterazione delle insegne storiche dalle Case del Fascio: la storia non va rinnegata, diceva, dev’essere presa a modello per non rifare gli stessi errori e per agir meglio. Una libertà, quella di don Giulio, che non stava mai con i potenti, mai con i vincenti: che guardava agli uomini e alle donne, non al denaro o al potere. La sua lezione, non l’ho mai dimenticata.

Ecco perché è all’Impruneta che ho scelto di fare il mio pellegrinaggio in occasione del Giubileo della Misericordia; è varcando la porta laterale della basilica-santuario – quella ordinariamente secondaria, che dà su Via Mazzini – che ho sentito il bisogno di percorrere il mio itinerario penitenziale fiorentino, dopo aver già celebrato in Laterano quello romano che mi sembrava se non doveroso comunque necessario. Ho settantacinque anni: è giusto che anch’io, come tutti i vecchi, parta à la recherche du temps perdu. E il mio tempo perduto – e ricercato, e ritrovato – sta qui, fra queste colline benedette dalle viti e dagli olivi. È qui che, ringraziando Iddio per esser nato e vissuto in un posto tanto bello, unico al mondo, cerco in me stesso i modi per approfondire la carità nei confronti di chi ha tanto meno di noi, di chi ha dovuto abbandonare la sua terra per andar in cerca di un po’ di lavoro e di serenità. Il Giubileo è questo.