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Il matrimonio è in crisi? Occorre sostenerlo, non gettarlo

di Franco Vaccari«Avanti c’è posto!», ripeteva stancamente Aldo Fabrizi nel ruolo di bigliettaio del vecchio e celebre autobus romano. Ma guardando quella sequenza cinematografica come metafora della vita, oggi quell’adagio non si applica più. Nella vita non si avanza, perché sembra non esserci più posto. Chi pareva ormai arrivato non lo è più, chi sembrava prossimo alla discesa l’ha rinviata, e chi sta nelle posizioni intermedie si sente bloccato. Pochi per fare massa e sbloccare la situazione, ma sufficienti ad aumentare il senso di fastidio, se non di claustrofobia.

Questo autobus della vita, sempre più scomposto, denuncia evidenti segni di irritabililità. La disgregazione del rapporto intergenerazionale, infatti, segnala un individuo moderno affetto da crescente individualismo e, nel contempo, schiacciato e dissolto nella massa, senza più ruolo e senza percorsi chiari che, attraverso fasi ben identificabili, gli permettano di crescere. Paul Yonnet, nel suo Le recul de la mort, traccia un quadro inquietante dell’individualismo contemporaneo e situa in questi processi le radici di grandi patologie – serial killer o padri omicidi/suicidi –.

Concepirsi e vivere così è difficile, ma le teorie per ridurre tale difficoltà o curarla a volte non convincono. Ad esempio la dichiarazione della morte della famiglia fondata sul matrimonio e, dunque, la necessità di abbandonare quest’ultimo. La prova provata di ciò sarebbe la generazione dei figli fuori dal matrimonio e il concepimento irrevocabilmente e universalmente fondato sul desiderio e non più sul bisogno o sul dovere. Il figlio desiderato e realizzato dal singolo e non più dalla coppia è ormai una realtà. L’individuo moderno sarebbe fragile perché nato dal desiderio degli altri e, pertanto, non potrebbe vivere senza questa riaffermazione permanente di sè. Si dovrebbe dunque cambiare strada.

Ora, all’origine di tale diagnosi e della conseguente proposta terapeutica c’è un grave equivoco. Si tratta della parola «desiderio». Paternità e maternità sono infatti concetti che includono il desiderio, ma non si esauriscono in esso. A una decisione matura contribuiscono il pensiero, la volontà, il rischio, ma soprattutto l’amore inteso come servizio. Il desiderio dura poco e quando lo si applica, anziché agli oggetti, ai viventi tout court, facilmente si possono vedere cuccioli abbandonati al primo ferragosto o bambini riconsegnati al giudice. Perché il desiderio è labile e nasce come rappresentazione fantastica. Si sostiene che «non può esserci il bambino desiderato se non c’è il bambino rifiutato». Forse si deve giungere al bambino amato passando da entrambi quegli stadi, senza fermarsi ad essi. Infatti il desiderio è una categoria che introduce libertà e grazia in una concezione moralistica e greve. I figli vanno desiderati, non posseduti. Ma quel desiderio che pone l’altro davanti a sé come soggetto e non come oggetto si è trasformato in delirio. Si nasce entro un pensiero di due soggetti con due desideri spesso divergenti, ma che in realtà nascondono una comune idea delirante di onnipotenza: «ti faccio quando e come voglio io».

Eppure milioni di persone, in Italia, capiscono immediatamente questa drammatica ambiguità. La pubblicità televisiva del bambino che, ascoltando i «desideri» della mamma – «poi diventerai il mio… poi diventirai il mio….» – alla prima pausa le sputa la pappa in faccia, scatena un riso immediato. La gente è ancora sana. Il matrimonio è in crisi, ma occorre sostenerlo. Non gettarlo.

Famiglia. Così la rappresentano cinema e tv