Cultura & Società

Il gioco dall’antichità ai nostri giorni

di Sara D’Oriano

Sonagli, fischietti, animali di terracotta, cavallini, piccoli carretti di legno, bambole snodabili, dadi, pedine e addirittura yo-yo. Giochi semplici, che però ancora oggi possiamo ritrovare fra le mani dei nostri bambini. Per questo, fa più effetto vederli racchiusi in teche di vetro, testimonianza viva del gioco di tanti secoli fa. «Ludus in fabula – giochi e immagini dell’infanzia nell’antichità» è l’interessante mostra, realizzata dal Museo archeologico di Firenze con la collaborazione dell’Istituto degli Innocenti, che propone un viaggio affascinante alla scoperta della vita quotidiana dei bambini attraverso 90 reperti e numerose testimonianze letterarie provenienti dal mondo classico. Molti i temi proposti, dalle statuette raffiguranti donne incinte, dedicate dalle giovani madri agli dei per ottenere un buon parto, agli ex voto, per ringraziare della salute del figlio appena nato; dai poppatoi usati per i neonati ai giocattoli dei più piccoli fino a giungere al vero e proprio «gioco d’azzardo», testimonianza ludica degli adulti, con i dadi e le pedine ritrovati nei relitti delle navi.

«L’indole dell’anima dei bambini di tre anni e di quelli di quattro, di cinque e di sei anni ha bisogno di divertimenti», scrive Platone nelle «Leggi» e il gioco era sia per i greci, che per i romani, importante momento per la crescita del bambino, per favorire la socialità e l’addestramento alla vita adulta, al punto che, per indicare l’abbandono del mondo infantile per entrare in quello degli adulti si soleva dire «nuces relinquere» (abbandonare le noci, uno dei giochi più utilizzati dai bambini dell’epoca). Proprio per questo i giocattoli non abbandonavano mai i bambini neanche nel caso di morte prematura: venivano infatti deposti accanto al piccolo corpo ed è proprio nelle sepolture antiche che sono state ritrovate le testimonianze più importanti di questo aspetto della vita quotidiana del bambino. Oltre a ciò, numerose sono le testimonianze raccolte nei templi dedicati alle divinità nutrici, quelle a cui le madri affidavano i propri figli, affinché le bambine divenissero brave madri e i maschi bravi soldati e atleti.

A partire dall’età romana, poi, il mondo dell’infanzia viene riscoperto nelle arti, e una sezione della mostra propone un’insolita collezione di statuette di bambini intenti nel gioco, rappresentati con estremo realismo e vividezza, spesso accompagnati dagli dei Eros e Arpocrate (versione romana del dio egizio Horus, spesso rappresentato con il dito in bocca).Di particolare rilievo tra i reperti è la gamba in avorio di un’antica bambola di epoca ellenistica che, proprio come le nostre moderne, aveva gli arti snodabili.L’esposizione si conclude con una sezione dedicata al gioco degli adulti: dadi in osso e avorio con i bussolotti utilizzati per lanciarli, ma anche le più «intellettuali» pedine, di cui troviamo testimonianza in Ovidio e Varrone.

La mostra al Museo Archeologico, che resterà aperta fino a tutto giugno (ingresso libero, lunedì 14-19, martedì e giovedì 8,30-19, venerdì, sabato e domenica 8,30-14. Info: 055-23575), offre inoltre lo spunto per proporre alle scuole e alle famiglie alcuni laboratori rivolti alla scoperta del gioco e del divertimento. Sta già riscuotendo molto successo il laboratorio «C’era una volta un gioco» con cui i bambini di oggi potranno riscoprire «a che gioco giocavano» i loro coetanei del passato… alla faccia dei video games.

L’INTERVISTA

In strada o tra quattro mura resta uno specchio della società

Il gioco non è soltanto un momento importante nella vita di un bambino, ma è anche qualcosa di più profondo: espressione di una cultura, di una società che cambia e si modifica. Ma come è cambiato il gioco dall’antichità ad oggi? E cosa significa giocare anche per «i grandi»? Lo abbiamo chiesto a Beniamino Sidoti, esperto di giochi, consulente, fra gli altri, di De Agostini e dell’Istituto degli Innocenti di Firenze.Sidoti, come è cambiato il gioco dall’antichità a oggi?

«Ogni cultura si esprime anche attraverso i giochi, che ne sono una rappresentazione. Per cui il cambiamento avviene in ogni momento: in senso temporale, dall’antichità a oggi ma anche di cultura in cultura. Sicuramente sono cambiati gli spazi di gioco. In passato, i luoghi aperti e non istituzionalizzati erano luoghi privilegiati in cui ritrovarsi a giocare. Oggi invece si tende a creare degli spazi appositi, dei «contenitori», e il gioco di strada si sta perdendo. Questo ha cambiato anche le modalità di aggregazione: spazi più stretti impediscono la creazione di gruppi grandi e misti. Un tempo era usuale che in un gruppo di bambini le età fossero anche molto diverse, le conoscenze differenti. Oggi l’aggregazione non è più spontanea, ma ci si trova magari in casa in piccoli gruppi, tra bambini coetanei, compagni di scuola, e su invito dei genitori. Pur non mancando altri spazi di socialità, il gioco è più raramente occasione di incontro tra sconosciuti, ma un territorio per bambini (e adulti) che già si conoscono e si frequentano in altri ambiti».

Perché alcuni giochi vengono dimenticati e non più trasmessi di generazione in generazione, mentre altri continuano a vivere?

«Per lungo tempo il gioco si è trasmesso in maniera orale: così, la mancanza di spazi di aggregazione trasversali ha segnato una discontinuità. Un tempo i giochi si trasmettevano tra quasi coetanei, oggi passano di adulto in bambino, e si fanno così meno praticati».

Quanto è determinante il ruolo dei genitori nella scelta dei giochi dei bambini?

«Più che nella scelta dei giochi, i genitori influenzano i bambini nelle modalità di gioco. Se un genitore favorisce nel proprio bambino un atteggiamento competitivo nei confronti degli altri, qualunque gioco quel bambino stia facendo, tenderà ad avere un atteggiamento competitivo. Anche più sottilmente, se un genitore tende a investire poco tempo nel gioco con il proprio bambino, quest’ultimo potrebbe avere un atteggiamento scostante verso ogni realtà ludica».

A proposito dei più grandi, anche i giovani giocano, così come gli adulti. Perché anche gli adulti sentono l’esigenza del gioco? Che cosa rappresenta?

«Il gioco in qualche modo simula la realtà, ma ha il vantaggio di annullare, per il tempo della sua durata, le gerarchie sociali. In età classica e in epoche più recenti, il gioco tra adulti, o “da salotto”, era occasione per mostrarsi in società, ponendosi ad armi pari con gli altri. Giochi come il “tiro alla fune”, che oggi si cerca in qualche modo di rivalorizzare, o “la mosca cieca”, sono nati un tempo per gli adulti a questo scopo, in diverse classi sociali. Ma la letteratura è molto vasta: si gioca per sperimentare, per immaginarsi diversi da quelli che si è, per divertimento. Quello che manca in particolare in Italia è il gioco misto, tra bambini ed adulti. Eppure proprio questo sarebbe importantissimo per entrambi, per misurarsi in un ambiente privo di gerarchie sociali».

La società condiziona dunque il gioco?

«Assolutamente sì. Innanzitutto, i giochi rappresentano, a livello simbolico, i cambiamenti della società e i suoi punti critici: così il gioco è una rappresentazione simbolica di mutamenti importanti. Il famosissimo “Monopoli” fu inventato nei primi anni del Novecento ma conoscerà un duraturo successo a partire dal 1935, dopo il crollo della borsa di Wall Street. “Risiko” invece, altro conosciuto gioco di società, durante l’epoca della Guerra Fredda. Analogamente il cruciverba si impone in una società che ha assimilato griglie e strutture…. La società condiziona il gioco con la segmentazione degli spazi, del tempo, delle classi sociali; qui ha un’importanza enorme per la modernità l’invenzione del tempo libero e quella parallela dell’infanzia: due costruzioni culturali ottocentesche. Il tempo libero, inteso come momento alternativo e complementare al lavoro, dando un valore anche monetario al gioco, lo racchiude in contenitori precisi e organizzati. Infine le nuove tecnologie influenzano il gioco: ogni innovazione avrà presto il suo corrispettivo ludico; ma è vero anche il contrario, cioè che dobbiamo alcuni cambiamenti tecnologici e quindi sociali proprio al gioco, dove certi principi sono maturati. La tecnologia della stampa favorì ad esempio la diffusione delle carte da gioco, e poi dei “giochi a stampa”, come il “Gioco dell’oca”. Il calcolo delle probabilità, su cui si basano i grandi investimenti mondiali, la fisica quantistica o l’astronautica, nasce per spiegare il gioco dei dadi e la roulette; attraverso il gioco è stata rappresentata la potenza dei computer (i videogiochi sono state una delle prime applicazioni per computer). Così il gioco rappresenta il progresso, lo subisce, e a volte lo anticipa. Ogni mondo, ogni progresso è simulato dal gioco. Una buona simulazione ci offre uno sguardo altrove, nel futuro o in una possibilità: il gioco lo ha sempre fatto e continuerà ad esistere anche per questo».

IL PARERE DEI GIOCATTOLAI

La televisione la fa ancora da padrona nei giochi dei nostri bambini. Gormiti, Winx, Barbie e i personaggi dei cartoni animati sembrano infatti essere i giocattoli che attirano di più il pubblico dei bambini.

A dirlo sono i giocattolai, in una piccola indagine che abbiamo svolto tra Pistoia Prato e Firenze Tutti gli intervistati sono concordi nell’affermare che il successo di certi giocattoli piuttosto che di altri è determinato per lo più dalla visibilità che questi hanno rispetto ai più classici e intramontabili:

«Oggi come oggi, i bambini passano ore davanti alla tv a guardare i cartoni animati – spiega un negoziante di Firenze – e durante gli intervalli vengono bombardati da pubblicità accattivanti su questo o quel personaggio, così è normale che quando entrano in negozio cercano immediatamente quello che conoscono e che hanno visto in tv». «Ciò che un bambino non vede, non chiede», gli fa eco un commerciante di Prato, che sottolinea inoltre la fugacità di certe mode: «Un tempo si vendevano i Pokemon, poi le Bratz, ma in genere questi giochi hanno vita più breve rispetto agli intramontabili trenini di legno, ai domino o ai lego, proprio perché soggetti alla moda, immediatamente accattivanti, ma velocemente dimenticati dai bambini che più facilmente tornano a giocare con costruzioni e martellini».

Si accorcia l’età del gioco, come sottolinea un negoziante di Pistoia: «A dodici anni i bambini hanno già il cellulare, certi giochi non interessano già più e inoltre c’è anche meno fantasia rispetto al passato» anche se, qualora adeguatamente aiutati dai genitori, i più piccoli sembrerebbero riscoprire l’interesse verso i giocattoli di un tempo. «La città del Sole» (www.cittadelsole.it) è una catena di negozi un po’ particolare: vende infatti giocattoli «anomali», come li definisce lo stesso commerciante, in legno, senza marche famose e che si rifanno a vecchie tradizioni: «In genere, il nostro negozio mette d’accordo genitori e figli, e ai bambini piacciono i nostri giochi: la casa delle bambole è un classico intramontabile per le bambine, così come lo sono i cavalieri medievali, le spade, la pista dei treni per i bambini. Basta far scoprire loro il piacere di certi giochi, e i bambini lo capiscono e si divertono, crescendo nello stesso tempo». Dello stesso avviso sono al negozio Dreoni di Firenze: «Basta educare i bambini, fargli capire che ci si può divertire anche con giochi meno commerciali e più fantasiosi e la loro risposta è immediata. Basta un drago, una spada di legno per far loro inventare di essere dei cavalieri e ingaggiare delle battaglie fantastiche, oppure un paio di ali di farfalla per trasportare le bambine in un mondo fatato».

E i più grandi? «Eccome se giocano! Oltre al modellismo, che è discretamente diffuso, i giochi di società sono ancora dei punti cardine per il gioco degli adulti. E c’è da sottolineare che nonostante escano continuamente nuovi giochi, i più venduti e richiesti rimangono sempre gli stessi ormai da anni: “Monopoli”, “Risiko” e addirittura anche “L’Allegro chirurgo”».

Sembrerebbe proprio il caso di dire che: «non smettiamo di giocare perché diventiamo vecchi, diventiamo vecchi perché smettiamo di giocare».